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Trascrizione del testo poetico
Inv.
Degl’angui, c’ho nel crin l’orrido fischio
In formidabil suono
Paleserà, chi sono
Ma perché l’esser mio ben si distingua,
Questo cor, ch’io divoro è più che lingua.
L’Invidia son, che per le reggie ognora
Incognita passeggio;
E de’ felici indomita nemica
Gl’armo contro i rivali,
Gl’accendo a le vendette,
Li somministro i modi
Di tramar mille frodi,
Ne cesso mai dall’ostinata guerra
Fin ch’io non veggia il sublimato a terra.
Sol dal Ciel son esclusa e non ho vanti;
Che quell’eterna region di pace
E d’ogn’odio incapace
Et a scampo de’ Numi
Sol quell’Eteree chiostre
Son asilo inaccesso all’armi nostre.
Ma mentre oggi festanti
Sceser dal Ciel gli Dei
E su li colli idei
A lieta mensa assisi,
Ondeggiano tra i risi,
Or, ch’io gl’ho prigionieri entro i miei regni
Vo quell’alme di Ciel tentar di sdegni.
Questo globo dorato
Ch’io tengo in sen celato,
Questo in quell’alta mensa,
Dov’ebra deità lieta rimbomba,
Fia, qual in campo ostil, vibrata bomba
Turberà, frangerà quei forti petti
E diverran di Numi Idre e Aletti.
Aria.
S’abbatter vuoi tu
In rapido assalto
Le rocche di smalto,
Per bellica mole
Avventa pur sole
Bionde glebe del Perù
Che s’arder lontano
Poté Latini abeti
Ingegnero Sicano
A mio senno non foro
Quei specchi onnipotenti altro che d’oro.
Anco il Tonante a cui soggiace il fato,
A fulminar dell’oro e fulminato.
Or io men vado e sorvolando all’aure
E chiusa in fosco nembo
Su la mensa regale
Farò piombar dal Ciel l’orbe fatale
E maggior del Tonante
N’anderò con insoliti costumi;
Non ch’i mortali a fulminare i numi.
Qui comparisce il Monte Ida con Mercurio e le 3 Dee.
Aria a 4.
Quel bever eterno
L’ambrosia nativa
Del regno superno
E forza ch’al fine
Da labbra divine
S’aborra e si sprezze;
Rifiuti al possessor son le dolcezze
Quindi venimmo in giubili secondo
Stanchi dell’Etra e villeggiar nel mondo.
Aria.
Gradite dimore
Felici quell’ore
Che passan così.
S’eterni, qual suole
La sovra del sole,
Si lieto dì
Che se le stelle e ’l cielo, io ben ravviso,
Altro il Cielo non è, che pace e riso.
Merc.
Vedete, stupite,
Dall’aure gradite
Un globo discende.
Le 3 Dee.
Quell’orbe lucente
Ch’il Cielo ne dà,
A chi viene? a chi va?
A chi si dovrà
La sorte novella?
Mer.
Mirate, leggete,
A la più bella.
Le 3 Dee.
A la più bella.
Giun.
Io son quella.
Pall.
Io.
Ven.
Io.
a 3.
Io son quella.
Giun.
Su ne le stelle io regno.
Pall.
Io di regnare insegno.
Ven.
Io dell’Olimpo son la prima stella.
a 3.
A la più bella, a la più bella.
Mer.
Deh si dia tregua all’ire
E non sdegnate intanto;
Ch’un dono ambito tanto,
Si riserbi da me; fin ch’io per queste
Peregrine foreste
Paride, il Pastor giusto, alfin rintracci.
Che con saggi decreti
Gl’ardori estingua e le doglianze acqueti.
Giu.
Mio sarà, sicuro il so;
Pall. Ven. a 2.
Mai ragion non lo vorrà;
Giu.
Se quel pomo in premio non ho,
Alma e Cielo si perderà.
a 3.
Mio sarà.
Mer.
O destino gradito
Ecco Pari sopito
Destati uom giusto, al più grand’uopo il fato
T’ha quivi addormentato;
Destati e lieto mira
Scese quaggiù da le superne rive
A venerar tua fe’ tre nobil Dive.
Par.
O giorno avventurato e che rimiro
Ospiti sì pregiati
In questi boschi oschuri?
Tanti Augusti del Ciel ne’ miei tuguri?
Mer. Aria.
Gran sorte, che dove
Il danno germoglia
Accinto si trove
Che tempri ogni doglia.
Recitamento dell’istesso.
Paride; il Cielo istesso
Nei dubbi eventi il suo soccorso implora,
Che si pregian del giusto i Numi ancora.
Vedi quest’orbe aurato?
Questo pur or dal Ciel scender si vide
E con muta favella
Offre se stesso in dono a la più bella.
Le 3 Dee.
A la più bella, a la più bella.
Par. Mer. Aria.
Se dal Ciel giamai si dileguano
Belle Dive del suolo amanti
E forza, che gl’astri vaganti,
Idolatri in terra le seguano.
Con indivise tempre
Là dove vanno i Numi, il Ciel va sempre.
Mer.
Or tu Pari risveglia
I tuoi più puri spirti
Et ogni saggio e limpido pensiero
A concepire e promulgare il vero.
Par.
Se Mida a me cedesse
Suo ricco tatto e Creso
Co’ li biondi torrenti
Dell’Ermo e del Pattolo
Pretiose tempeste a me movesse
E se dall’Indie istesse
Con grandini di perle,
Con diluvi di gioie io fussi immerso,
Non mai da me diverso
Darei, Reine. Immobilmente siede
Nel centro del mio cor, giustitia e fede.
Mer. Rec.
Il Ciel fora un Inferno,
Se tre Dive ch’Erinni accese
A fervide contese
S’irritassero ogn’ora e crollerebbe
In sé diviso l’Universo intiero,
Se giudice severo
I furor non quietasse
Con divieto secondo
Un accento talor compone il mondo.
Tu gran pastor dell’Ida
Che d’ogni lite in terra arbitro siedi,
Tu con un giusto zelo
Tronca i litigi e rendi il Cielo al Cielo?
Par.
Oprerò senno e fede
Per ricompor le Deità guerriere,
Ma in un petto celeste
Perché raro s’adira,
Tanto più cupa e più tenace è l’ira.
Mer. Par. a 2.
Sagge Dive unite al fine
In bel nodo amiche destre,
Il rigor di fera alpestre
Cangia in mostri alme divine.
Mer. Ma se pure ostinate
A sostener pugnando il proprio merto
Ogni tregua negate,
Almen non vi sdegnate
Doppo tante tenzoni
Ripor vostre ragioni
Nell’arbitrio di Pari e attender solo
Dal suo labbro fedele o gloria o pianto,
Chi fugge il paragone, ha scarso il vanto.
Giu. Pall.
Siam ricche di pregi,
Ven. Feconde di fregi;
a 2.
Noi siam primo raggio,
Degl’astri paterni;
Terreni superni,
Ci pagan l’omaggio.
Ha seco ciascuna
La propria fortuna,
E sicura
Di ventura
Giudice qualsisia, fuggir non vuole.
Che non fuggon già mai l’aquile il sole.
Schiva il giuditio e la sentenza teme.
Chi sevreto nell’alma il fallo preme.
Par. Rec.
Or perch’io sappia appieno,
A qual merto si dee si nobil dono
Et a favor di cui decider deggio,
Narri pronta ciascuna il proprio preggio
E tu real Giunone
In placidi contrasti
Comincia a enumerare i tuoi gran fasti.
Giu. Rec.
Io che son del Tonante e suora e sposa
Non pur di mille beni inondo il suolo,
Ma colà su nel polo
Con un arbitrio immenso
Anco ai numi maggior glorie dispenso?
E se quelli talor protervi e rei
Sdegnano i cenni miei,
Li bandisco di Giove
Da la mensa e dal soglio
E poscia ancor di Deità le spoglie
Son ministra del Fato
E tengo in man la sorte;
Il temuto consorte
Solo a ferir, chi m’odia, avventa i tuoni
E a chi m’adora sol, diluvia i doni.
Quanto feri e possenti
Sian di Giuno li sdegni,
Se con fausti divieti
A mio pro non decreti
Troia, la patria tua, vò che l’insegni.
Aria de la med.
Chi vuo regnar, m’adora
Chi vuol perir, mi spreggia,
Di tomba e di reggia
Son arbitra ogn’ora.
Chi vuol perir, mi spreggia,
Chi vuol regnar, m’adora.
Rec.
E sol di Giuno il nome in forze ignote
Gela gl’astri di tema e ’l mondo scote.
Par.
Lusinga e minaccia
Mia mente sospende;
All’una s’accende,
All’altra s’aggiaccia
E folle, chi sprezza
Offerta grandezza.
L’umana natura
Vuol sempre bearsi;
Né sa contentarsi
Di scarsa ventura.
E fatta pe ’l Cielo
E fin che vi giunge;
Un fervido zelo
Di gloria la punge,
Ell’è de’ mortali
Reina temuta;
Se i regni rigiuta
Profana i natali.
Ch’al fine inutil grido
O di giusto o d’ingiusto
È ludibrio del vvento,
E lo dona e lo toglie un nudo accento.
Ma, ben accorto fonda
Su sempiterna base i suoi pensieri,
Chi solo aspira a fabbricarsi imperi.
Pall. Rec.
Misero, eh come tosto
A superbia eloquente,
Che tanto il nulla a frode tua sublima,
Espugnato ti rendi?
Deh la tua Palla intendi,
Che verace t’invita
Solo a cercare eternità di vita.
Io son madre del senno,
Che con legge costante
Di vicende sì belle
Insegno a Giove a regolar le stelle.
E sol l’alta virtù, ch’in me si serra
E motrice del Cielo e della terra.
Io son alma dell’alme,
Che con fiato vitale
Spiro divinitade anco al Tonante
E se bene ei sovente
Mi partorì da la feconda testa,
Pur, mai sempre, di me gravido resta.
Che s’una volta affatto
Ei da se mi rimove,
Cesserà d’esser Dio l’istesso Giove
E dal suo onor caduto
Trasformerassi in un baccante, in bruto.
Par. aria.
Errai, no ’l niego, errai;
Il lampo degl’ori
Agl’Arghi maggiori
Affascina i rai.
Errai, no ’l niego, errai;
Tra l’ombre del finto,
Il meglio non vedesi
E forse allor credesi
Il vero dipinto.
Ma se un lampo da te possente uscìo,
Ah che l’ombre vegg’io
Dissipate e perdute;
Alba, che illustra il mondo, è sol virtute.
Si con saggio consiglio
Sprezzando i regni, a la virtù m’appiglio.
Ven. Rec.
Volgiti in qua mal cauto,
Così poni in oblio Venere bella?
Una sola facella
Che roti intorno il mio bendato figlio
E la terra ed il ciel pone in scompiglio.
Aria de la med.
Ove amor vibra il suo telo
Ogni saggio ebro diviene,
Giove istesso avvolto in pene
Perde il senno e sdegna il cielo.
Quanti a te quanti sospiri
Costerà di Sparta un ciglio?
Soffrirai qual sia periglio,
Per bearti in quei bei giri.
Se tu fussi il gran Tonante,
Per sì nobili pupille
Lasceresti in un istante
Non ch’i mondi i cieli a mille.
Par. aria.
È vero, è vero.
Non voglio virtù,
Impero non vò,
Amor mi legò,
Voler non ho più.
Non voglio virtù
Impero non vò.
Da che il cuore di Sparta al cor mi tuona,
Ammutisce ragion, se amor ragiona.
Aria a 5.
Dell senno ridetevi
De’ regni burlatevi,
Sol Cupido,
Per ogni lido
Erge ognor suoi trofei
E ne tragge in catena uomini e Dei.
Bel ciglio che rida
Non men de’ mortali
La strage qui fa.
Ch’ancora omicida
I Numi immortali
A strugger s’en va.
Un folgore di pupilla
Quand’esce ai danni di fe’,
Fende i cieli, e i Numi fere
E scorrendo tutte le sfere
Giunge alfine, ov’altro non è;
Ahi che può di due luci un guardo solo
Incenerir in un la terra e ’l Polo.
Paese
Lingua
Segnatura
collocazione 204.3.B.12.124
Scheda a cura di Nadia Amendola