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Redazione
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Capolettera ornato. Titolo dall'incipit testuale. A c. 1: "(di Luigi Rossi)" aggiunto da mano recente in inchiostro rosso. Nell'indice a carta 5v: Lam.o Sotto l'ombra d'un pino [Musica] Del Sig.re Luigi Rossi [Poesia] Di Monsig.re Vai.
Titolo uniforme
Organico
Repertori bibliografici
Descrizione analitica
Sotto l’ombra d’un pino
Quando venirse a sé
O Cecco poveraccio
Sin a due volte o tre
Al repertino avviso
Ohimè ch’io muoio e muoio da dovero
Datemi per pietade un po’ d’aceto
Empio e crudo destino
Datemi per pietà un po’ d’aceto
O che nuova da calze
Datemi per pietade un po’ d’aceto
Vedendomi scartato
Datemi per pietate un po’ d’aceto
Ma lasso e chi è quel temerario
Datemi per pietade un po’ d’aceto
Qual dunque in questo caso
Vago e dolce terreno
E tu, Lisa crudele
In sì fatta maniera
Trascrizione del testo poetico
Sotto l’ombra d’un pino
Alto cinque o sei canne o forse più
Al suon d’un chitarrino
Cantava Cecco la cuccurucù.
Quando venirse a sé
Con frettoloso piè mirò Mengaccio
Che fattos’egli a presso
Quanto sarebbe a dir da qui a lì
Con un brutto mostaccio
La bocca aperse e favellò così.
O Cecco poveraccio,
O misero infelice, o te sgraziato
Qual domin di peccato
T’ha mai condotto a così strano passo?
Qual furia o satanasso
Gode di tormentarti in questa guisa?
Lisa tua, la tua Lisa
Che nell’esser galante
Non cede a Bradamante
E brava poco men d’una Marfisa.
Lisa tua, la tua Lisa
Candida e fresca più della ricotta
E da mangiar col pane assai migliore
D’una pera bugiarda o bergamotta
Non ostante la fede
A te più volte in mia presenza data,
Scoppiami il core a dirlo, è maritata.
Sin a due volte o tre
Ciò detto il buon Mengaccio sbadigliò
Ma dopoi ch’io non ho, soggiunse alfine,
Negl’alborelli miei pillola alcuna
Al tuo male opportuna
Rimanti col buon dì che Dio ti dia
E senz’altro aspettar sgambettò via.
Al repertino avviso
Di sì strana novella e traditora
Cascorno a Cecco e core e coratella
E per un quarto d’hora
Perse affatto la vista e la favella,
Indi, ripreso fiato,
Fé mille pezzi e più della chitarra
E con cera bizzarra
Scaraventò per terra e giubba e saio
E doppo haver col pugno a sé medesmo
Di volte almeno un paio
Scalfitto il petto ed ammaccato il grugno
Tenendo al ciel le luci intente e fisse
In un languido ohimè proruppe e disse:
E come può mai stare, o Lisa mia,
Che mia ti vuò pur dire
Ancor che fatta d’altri hoggi ti sia?
E come può mai star ch’habbi pensiero
Di voler il tuo Cecco abbandonare?
Ohimè ch’io muoio e muoio da dovero,
O Nencio, o Beco, o Togno,
E voi Sandrino e Nanni,
Soccorretemi, vi prego, al mio bisogno
E se per avventura
Non avete fra mano
Lo scotto o l’orvietano
O altro salutifero segreto
Datemi per pietade un po’ d’aceto.
Empio e crudo destino
So dir che questa volta
M’hai dato il mio dover sin a un quatrino.
O quanto era men male
Che un aspro temporale
Mandato havesse al diavol la ricolta
O che dal vento scossa
Giacesse a terra quella vigna ond’io
Rendo di fichi il corpo mio satollo
O ver per qualche fossa
Rotta si fosse ogni mia vacca il collo
Che metter me che t’amo, o Lisa, tanto
In questo laberinto e ginepreto
Datemi per pietade un po’ d’aceto.
O che nuova da calze
Mi recasti Mengaccio, era pur meglio
Gettarmi a capo chino in queste balze
Almeno avrei finita
E la doglia e la vita,
Almen non t’havrei vista, o Lisa ingrata,
Fatta d’ogn’altro che di Cecco sposa
Cosa tremenda, cosa inaspettata,
Tanto e tanto strana
Ch’a pensarvi ben bene,
Non sol m’aggiaccia il sangue entro le vene,
Ma fa venirmi insino la quartana.
O fiumi, o boschi, o monti,
O parenti, o vicini,
O popoli, o brigate, ohimè, che fate?
Ché non porgete aiuto a quest’afflitto
Che per essere stracco homai vacilla
E non può star più dritto?
Che fate, ohimè, che fate?
Almeno, o genti, almeno
In sì strano accidente,
In sì fiera sventura
Che mi toglie per sempre il viver lieto
Datemi per pietade un po’ d’aceto.
Vedendomi scartato
Dall’esservi marito
E privo affatto della gratia tua
Ogn’un dirà la sua
E per le piazze mostrerammi a dito
Onde sarò sforzato
Saltar in qua e in là come i ranocchi
Et andar pel mercato
Col capo in seno e col cappel su gl’occhi
E quel che più mi pesa
Per non gir procacciando
Ad ogni piè di spinta ogni contesa
Farammi di mestiere
Ascoltar mille bubbole e star cheto
Datemi per pietate un po’ d’aceto.
Ma lasso e chi è quel temerario,
Sfacciato et arrogante
Che di togliermi ardisce ogni mio bene?
Itene pur altrove, o cantilene,
Itene in mal hora
O chiacchiere, o lamenti ,
O là fidi compagni, o là parenti,
Olà bifolchi amici e paesani,
Alle mani, alle mani,
Armatevi di pale,
Di ronchi e di forconi,
Di pungoli e spuntoni,
Di cinquadea di targo e di pugnale
E per simil eccesso
Spaccate adesso adesso
In due parti la testa a quello audace.
Non si parli di pace
Che non voglio acchetarmi
Se prima con quest’armi
Non s’atterra e s’uccide e s’io non veggio
A i corvi in pasto et alle volpi darlo.
Ma dove son? che parlo?
Che penso? che vaneggio?
Ahi che non son le genti oggi sì matte
Che voglio qui fra noi
Mettersi a grattar rogna o pelar gatte
E guastar per quei d’altri i fatti suoi
Et io solo non posso
A tanta avversità
Volger la fronte ancor
E t’avessi un core da mandricardo,
O ver da Rodomonte,
Et ancor ch’io facessi
Per tal cagion il diavol n’un canneto
Datemi per pietade un po’ d’aceto.
Qual dunque in questo caso
Sarà povero Cecco il tuo partito?
E fra tanti pensieri
In qual per vita tua darai di naso?
Ritrovarti vorrai forse presente
A segnare l’altrui caccie et a vedere
Stersene in pappardelle il tuo rivale.
No, che spettacol tale
Ti farebbe in poc’hore intisichire,
Meglio dunque per te, meglio morire.
Irne forse lontano
Vorrai dall’empia che t’ha dato l’ambio
E dell’aratro in cambio
Colà tra il moscovita e il persiano
Trattar lo schioppo e maneggiar la picca,
No che il mestiere dell’armi
Non è mestiere da povero christiano
Ma da persona ricca
Ch’habbia poco cervello e molto ardire
meglio dunque per te meglio morire.
Pensa e ripensa, pur gira e rigira
Soffistica e stiracchia,
Grida, buffonchia e gracchia,
Strologa quanto vuoi, piangi e sospira
Che già che non ritrovi
Medicina che giovi
A render meno acerbo il tuo martire,
Meglio dunque per te meglio è morire.
Vago e dolce terreno
Da me tant’anni sottosopra volto,
Prati ne quali ho colto
I fiori a fasci
Et a bracci a te il fieno,
Vomeri, vanghe e zappe,
Scure, falci, penati,
Rastelli correggiati,
Che strette tante volto ho con la mano
Poiché da voi lontano
Senza speranza alcuna
Di mai più rivedervi il piè rivolgo
Per dimostrare a pieno
Nell’andata fortuna
Quanto vi fui gradito
Fatemi in cortesia, fatemi almeno
Con un breve sospiro il ben servito.
Dai luoghi più segreti uscite, o cervi,
A pascolar ne' piani
E voi de le mie reti
Non temete gl’aguzzati,
Lodole, starne, tortore e fagiani
Che l’empia che mi stratia
Non sol m’ha per sua gratia
Levato dalla testa velli e vischio
Ma privo da vantaggio
Hammi in mia credenza
Del corso usato e dell’usato fischio
Giuochi, trastulli e spassi,
Frottole e barzellette
Che delle sei le sette
Eri da me mandate a Lisa in dono
Datemi il buon viaggio se vi piace.
Caro saione e tu,
Gradita intullurù, restate in pace
Ch’io per sempre vi lascio e v’abbandono.
E dove dopo me, dove n’andrà
L’amato colascione al suon del quale
Talvolta il carnevale
Cantar solevo la bernaccalà?
E dove dopo me, dove n’andrà
La mia piva diletta
Che spicca in eccellenza
Il passacaglio e l’aria di Fiorenza?
Almen qui nel paese
Si ritrovasse qualche cristianello
Ch’oltre il farvi le spese
Vi servisse di coppa e di coltello
E senza risparmiarsi d’un tantino
Vi tenesse ancor lui com’ho fatt’io
Tra la bambagia e nello scatolino.
Addio pecore e buoi,
Addio vacche e vitelli,
Addio galline, addio pulcini e voi
Figli dell’orto, mio cari piselli,
Addio Licisca, addio Melampo mio,
Addio nonno, addio mamma o babbo, addio.
E tu, Lisa crudele,
Che bistrattato m’hai sì malamente
Aver possi dal ciel qualche marito
Discolo la sua parte e impertinente
Che ‘l vezzo e le smariglie
T’impegni e ti consumi
E che, dando ne’ lumi,
Faccia dar anco te nelle stoviglie
Anzi vivi felice, o Lisa, e fa’
Per dar gusto ai parenti et ai vicini
In pochi mesi un branco di bambini.
Tempo forse verrà mentre vivrai
Ch’al fin t’accorgerai
Se però più del giusto io non mel becco
Chi son l’altre persone e chi era Cecco.
In sì fatta maniera
Giva quel poverello
Con l’empia che non v’era
La sua pena sfogando e’l suo martello,
Ma poi ch’egli s’accorse
Che per dar fama a simili pastocchie
I granchi e le ranocchie
Abbandonate avean le buche e l’acque
Serrò la bocca immantinente e tacque.
Paese
Lingua
Segnatura
collocazione V.289.1
Scheda a cura di Teresa M. Gialdroni