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Trascrizione del testo poetico
IX
O nostra mente ai così rapidi ali
Per gir presso all’inganno, e nella via
Che porta al ver, l’ai così lente e frali,
Non gir sì ratta e cieca ove ti svia
Un malnato pensier che ti trasporta
Senz’ascoltar chi ti s’oppon tra via:
Or che ti sei del proprio fallo acorta;
Schivar vorresti la dovuta pena,
Dandone colpa all’infedel tua scorta.
Chi siegue tal che all’altrui danno il mena
Libero e armato, se riman poi vinto;
Non è men degno di soffrir catena.
Qual resta in volto di rossor dipinto
Guerrier cui porga il duce ampia mercede,
Quand’egli è già d’abbandonarlo accinto;
Tal rimasi io quando la prima fede
Vide illesa in colei che di sue voglie
L’onesto freno al nostro arbitrio diede.
No che non mi mentiro i fiori le foglie
Sulla felice pianta il dolce frutto
Che or la mia mente in sua stagion pur coglie.
Vano timor femmi di pena e lutto
Imaginar per la mia fede tradita
Pien dei miei mestri giorni’l corso tutto.
O sola agli occhi miei ninfa gradita,
Tu il maggior dono sei che la fortuna
Dar possa alle speranze di mia vita.
Altrui su quanto sta sotto la luna
Brami l’insegne alzar del proprio impero,
Altri quante ricchezze il suolo aduna:
Egeria è meta d’ogni mio pensiero,
Amarmi quant’io l’amo ella non sdegni;
Ed avrò in pugno tutto quel ch’io spero:
Pago di lei non sarà mai ch’io degni
D’un guardo solo in mia futura etade
L’alto splendor che an seco imperi e regni.
Quanto di mano alla fortuna cade,
Caggia lontan da me: m’ami il mio bene;
E oh cara avventurosa povertade!
Soglia che mi conduci alla mia spene,
Non ti meravigliar se chi già tanti
Giori in grande odio ti ebbe, ora a te viene:
Tu mai non fosti avvezzan con gli amanti
Veggliar le notti, e i lor sospiri ardenti
Spesso ascoltar le lor querele e i pianti:
Veduto avresti trasportar dai venti
Di giorno in giorno le lor fragili ire
E gli spessi contrari giuramenti.
Fidiam noi stessi al nostro gran desire
Che talor d’un inganno per la traccia
Ne porta in preda ad un crudel martire.
Ma quale interna forza or vuol che io taccia?
Nulla dir posso, e s’alzo a quel bel volto
Gli occhi; m’avvampa di rossor la faccia:
Vieta il varco alla voce un numer folto
D’affannosi sospiri: Egeria, errai,
E a me da cieca passion fui tolto.
Non così chiari ha il crin di Febo i rai,
Qual di tua bella fe veggio il candore.
Ah lasciami tacer, cara, tu fai
Quanto dia pena il rammentar l’errore.
O Tirresia* German sovente mi odi
Lodar di Delia + il pargoletto figlio,
E a un tempo istesso ti contristi e godi.
Sul primo lustro dai tuoi lumi e figlio
Prese la luce, e ti mostrò la mano
Gli oggetti che dovea mostrarti’l ciglio.
Te l’appressi più volte e il tocchi invano,
Perché è ignoto alla man quanta in lui pose
Grazia e bellezza il facitor sovrano:
Fur suoi gran doni le create cose
A nostro pro; ma fur doni maggiori
Il lor moto e il color che al guardo espose.
Non fra gli antichi e fra i novelli amori
Nacque parto più bel d’uomini e dei
Di Citerea dal nudo figlio in fuori.
Quando primo egli s’offre agli occhi miei;
Tosto mi fa raffigurar la madre;
Che tutte in volto ha le beltà di lei.
Dolce è mirar come ella e il forte padre
Godon veder le lor sembianze vinte
Nelle tenere sue forme leggiadre.
Vaghe ha le chiome d’un color dipinte
Fra il biondo e il nero, o caggiano in anelli
Tremole e sciolte, o sian da nastro avvinte.
Bello è il veder gli adorni suoi capelli
Sparsi di bianca polve e grat’odore
Moversi allo spirar dei venticelli.
Tersa e grande è la fronte, e dal candore
Più bel di quel degli odorosi gigli,
Magnanimo e gentil traluce il core.
Son maestosi ed inarcati i cigli,
E in lor si mira a quai cresca la mente
Maturi in sua stagion d’onor consigli.
I suoi begli occhi an viva luce ardente,
E son tinte le placide pupille
Del più dolce Zaffiro d’Oriente:
E chi potria ridir come sfaville
Ogni lor guardo, e come imperiose
Soavemente sian; fiere o tranquille.
Amor gli pinse il volto, amor gli pose
Nelle pienotte guancie dilicate
Misto color di puro latte e rose.
Perle nella più bella aurora nate
Per fargli i suoi candidi denti, amore
Colse dalle conchiglie inargentate.
Vincono dei coralli il bel colore
I tumidetti labbri, e quel di sopra
Al mezzo si raccoglie e sporge in fuore.
Raro così tutto natura adopra
Suo gran potere a un sol oggetto intento,
Per compiacersi poi della bell’opra.
Molle pozzetta gli divide il mento,
Che la beltà compisce, e il riso e il gioco
Volangli intorno e cento grazie e cento.
Erto è il bel collo, e rilevato un poco
E’ l’animoso petto, e in giù declina
L’Omero vigoroso a poco a poco.
Nella man bianca come neve alpina
Non appar nodo o vena, e molle cede
Ove la palma ai diti s’avvicina.
Stretto è nei fianchi, e snello gir si vede
O a gravi passi altero mova, o ardito
Rapido scorra il suol con franco piede.
Appena ha il primo ancor lustro compito;
Ma da sì vaghi fiori oh qual s’attende
Frutto di grazia e di virtù condito!
Ricca e pomposa vesta che risplende
D’argentei fior di verdi fronde ornati
Giù dalla nuda spalla al suol scende,
E’ rosea tutta, e innante vi ha posati
Alamari d’argento industre mano
Con bel fiocchi pendenti in ambo i lati.
Con fibbia d’oro d’artificio strano
Sculta e gemmata, se gli avvolge al fianco
Un aureo cinto di lavor sovrano.
Del roseo Beretton sul lato manco
Seconda i moti della vaga testa
Tremulo e curvo un pennoncello bianco.
Veggalo il buon Parrasio, ** e se s’appresta
A porre in tele angelica sembianza;
La non terrena idea prenda da questa.
Oh come caro in leggiadretta danza
Move il tenero piede, come s’aggira
Piega s’erge s’arretra indi s’avanza.
* Nome pastorale nell’Accademia Arcadia in Roma del signor Domenico Rolli fratello dell’autore.
+ Nome fittizio dell’Illustrissima signora Marchesa Maria Anna Cavalieri, il cui bellissimo figlio è qui descritto.
** Nome arcadico del signor Giuseppe Chiari celebre allievo di Carlo Maratti.
Paese
Lingua
Segnatura
collocazione 74.R.34.23
Scheda a cura di Bianca Marracino