Scheda n. 6530

Tipo record

Scheda inferiore

Tipo documento

Testo per musica a stampa

Data

Data certa, 1674

Titolo

La madre ebrea famelica

Presentazione

Legami a persone

autore del testo per musica: Monesio, Pietro Giovanni (?-1684)

Pubblicazione

Copia

Descrizione fisica

Parte prima, p. 24-28

Filigrana

Non rilevata

Note

Il testo poetico è stato messo in musica in cantate attribuite a Antonio Cesti, Giacomo Carissimi e Giuseppe Corsi. Per l’intonazione di Corsi cfr. scheda n. 2512 a cura di Giacomo Sances in Clori. Il testo di tale cantata è modificato in alcuni punti rispetto all’edizione delle poesie, anche con l’eliminazione di interi versi.

Titolo uniforme

Del famoso Oriente. Forma non specificata

Bibliografia

Trascrizione del testo poetico

Del famoso Oriente
Le teste regnatrici
Del gran Tito a le piante.
Piegate avean l’indomite cervici,
Restava solo al regnatore invitto
Per ultimo trofeo vincer l’Egitto.
Ma dal’armi Latine
Assediata e cinta
Di già languiva Gerusalem’opressa;
Onde ogni Ebreo dolente
Da la fame agitato
Nel volto estenuato
Di morte avea l’orrida effigie impressa;
e mentre non volea darsi per vinto
Al suol cadea miseramente estinto;
Ma genitrice ardita,
Che in digiun disperato i dì trahea,
Avida sol di vita,
Il figlio uccise e consegnollo al foco;
E mentre a poco, a poco,
Vittima indegna e olocausto infame
Di sua barbara fame,
L’innocente bambin nel foco ardea,
La famelica Ebrea così dicea.

Su, su carboni ardete:
Non vi mostrate avari al mio desio
De’ vostri accesi lampi;
Deh fate omai, che avampi
Tra sollecite fiamme il figlio mio;
Ma s’arder non potete
Perché a voi nega i suoi respiri il vento,
Or dal languido fiato
Del mio labro affamato
Un leggiero alimento almen prendete.
Su, su carboni ardete.

Fiamme lente, fiamme pigre,
Che si bada, che si tarda?
Empia madre, anzi una tigre
Vuol che il figlio avampi e arda.

Ma che dico! Ah non son’io,
Che così voglio e desio;
Fame ria, fame esecranda,
Così vuol, così comanda.

Su dunque che fate
Carboni cocenti?
Con vampe più ardenti
Omai sfavillate,
E il sospirato cibo a me porgete.
Su, su carboni ardete.

Ma so perché a mio danno
È così tardo e lento
Il vorace elemento;
Da questi, ch’ora io verso
Lagrimosi diluvi il foco asperso
Perde l’acceso vanto;
L’accende il fiato e poi l’estingue il pianto.

E pur mi sprona in sì crudel digiuno
Con mortali punture
Appetito importuno
Sue membra a divorar crude e immature;
Anzi è dover, che sia,
Già che il mio core è di pietade ignudo,
Come cruda la madre il figlio crudo.

Dunque o mio caro figlio
Tu che già fosti il sol degli occhi miei,
Ora in si gran periglio
Del mio strano appetito
Sarai trofeo gradito?
E se già ti diss’io, mio Ben, mia Vita,
Or di mia fame ardita
Vittima diverrai?
E tu mio core un sì gran core avrai?
Ben’io con labro indegno
A ragion ti chiamai
Unico mio sostegno,
Se sostenermi in vita or tu dovrai;
E vero sia, che da quei labri stessi,
Ond’io nel tuo sembiante
Mille teneri baci un tempo impressi,
Divorato sarai?
E tu mio core un sì gran core avrai?
E voi labra mordaci
Cangiar potrete in fieri morsi i baci?

Ma fame tiranna
Di già mi condanna
Con barbaro esempio
A far di te mio figlio, orrido scempio.

Quella vita, ch’infausta io diedi a te
Rendi salubre in si grand’uopo a me;
Ritorna pure ad albergarmi in seno,
E il corpo suo sia di mia fame il freno;
Ed ecco al fin, che per mio sol ristoro.
Roto il dente, apro il labro e ti divoro.

Qui l’affamata Ebrea
Quasi fera Nemea,
Che in un lungo digiun vien meno e langue.
Pria le carni ingoiò del’arso figlio.
Poi misto al pianto suo ne bebbe il sangue;
Ond’ora più non vanti il Nilo solo
Il piangente omicida angue inumano,
C’ha i coccodrilli suoi pure il Giordano.
E per sì enorme eccesso
Da un’empia Ebrea commesso
Non sia per lo stupor chi inarchi il ciglio;
Chi uccide un Dio può divorare un figlio.

Paese

Italia

Lingua

Italiano

Segnatura

I-Rv - Roma - Biblioteca Vallicelliana
collocazione ARCA VII 24.8

Scheda a cura di Nadia Amendola
Ultima modifica: