Scheda n. 12464

Tipo record

Scheda inferiore

Tipo documento

Musica manoscritta

Data

Data incerta, 1660-1682

Titolo

Il Mida Del Sig.r Stradella

Presentazione

Partitura

Legami a persone

compositore: Stradella, Alessandro (1639-1682)

Pubblicazione

Copia

Descrizione fisica

C. 124-142v

Filigrana

Non rilevata

Titolo uniforme

Voi ch'avaro desio. Cantata, Il Mida

Organico

soprano e continuo

Repertori bibliografici

Descrizione analitica

1.1: (recitativo, C)
Voi ch'avaro desio
2.1: (aria, mi minore, 3/2)
Fermati mano ardita
3.1: (recitativo, C)
Non vedi tu che la superba Reggia
4.1: (aria cavata, 3/2)
Se s'indora e s'indura
5.1: (recitativo, C)
Senza che più ostenti
6.1: (aria, mi minore, 3/2)
Che val che col piè calpesti
7.1: (aria, mi minore, )
Se in tanta ricchezza
8.1: (recitativo, C)
Senza imprimer nell'oro
9.1: (aria cavata, 3/2)
Per ch'io troppo acquistai
10.1: (aria, la minore, 3/2)
Voi liquidi argenti
11.1: (recitativo, C)
forse chi sa quei vostri argentei
12.1: (aria cavata, 3/2)
Humori havran virtù
13.1: (recitativo, )
Ma mentre afflitto io piango
14.1: (recitativo-arioso, )
S'appaghi ognun delle fortune prime

Trascrizione del testo poetico

Voi ch’avaro desio nel sen’ nudrite
E l’India impoverir d’aurate zolle
Malnata avidità nel sen vi bolle
Del famelico Mida i pianti udite.

Mentr’egli in grembo a un fulgido tesoro
Trofeo d’un insoffribile appetito
Maledisce quell’oro
Dall’ingordigia sua già partorito.

Pretiosa cagion di sue ruine
Privo di cibo e sitibondo al fine
In un Gange dorato,
Tantalo coronato,
Bestemmia di Lieo gli alti favori,
E digiuno così parla tra gli ori.

Fermati mano ardita,
Dove ti stendi, ove ti manda
D’oro fame esecranda
A rapirmi la vita
Fermati mano ardita.

Non vedi tu che la superba Reggia
Del frigio Regnator di Mida il grande
D’aurei lampi arricchita omai biondeggia?
Ma i lampi di quest’ori,
Che d’ogni intorno sfavillare io miro,
sono precorridori
D’un fulmine mortale
Con cui fame crudel l’anima esale;
Ond’è ragione al fin ch’io caggia oppresso
Se s’indora e s’indura il cibo istesso.

Senza che più ostenti
Destra mia troppo audace
I favori del Ciel ne tuoi portenti
Ben vede a danno mio l’occhio che piange
Ch’il tuo tocco fatale
Produce un Tago e partorisce un Gange
Ma che giova che vale
Se al labro inaridito
Esca vital non porge oro indurito?

Che val che col piè
Calpesti i Perù
Se a darmi mercè
Non hanno virtù
Se in tanta ricchezza
Famelico io moro
Il cor ti disprezza
Mal nato tesoro.

Senza imprimer nell’oro orme superbe
Non bastava calcar con piè gentile
In drappo Assiro un ricamato Aprile?
Ma quando al cor sì altere brame accesi
Che pensai, che pretesi?
Fors’io credea del fulgido metallo
Di cui tanto abbondo
Impoverire il mondo?
E vederlo al mio piè reso vassallo?
Oh, d’avaro desio misero eccesso
Per ch’io troppo acquistai perdo me stesso.

Voi liquidi argenti
Dai lumi dolenti
Ormai diluviate
E unitevi pure
A zolle sì dure
Di masse dorate
Forse chi sa quei vostri argentei humori
Havran virtù da distemprar quest’ori.

Ma mentre afflitto io piango
Sol le lagrime mie lambisco e libo
E privo hoimè rimango
Del sospirato cibo
Che d’un ammanto aurato
Mascherando il sembiante
Su la scena dell’avido palato
Con disusata inedia
Forma al ventre digiun dura tragedia
Quindi mentre agonizzo
A gl’ori in seno
Con miserabile sorte
Arricchisco le essequie alla mia morte.
E mentre esangue al fin dico ch’io moro
L’estremo accento ancor termina in oro.

S’appaghi ognun delle fortune prime
Che spesso il Ciel con le grandezze opprime.

Paese

Italia

Lingua

Italiano

Segnatura

F-Pn - Paris - Bibliothèque Nationale de France
collocazione Rès. Vm7. 639.8

Scheda a cura di Valerio De Santis
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