Scheda n. 8083

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Scheda inferiore

Tipo documento

Testo per musica a stampa

Data

Data certa, 1667

Titolo

La S. Agnese drama per musica. III atto.

Presentazione

Legami a persone

autore del testo per musica: Benigni, Domenico (1596-1653)

Pubblicazione

Copia

Descrizione fisica

Parte seconda, pp. 61-77

Filigrana

Non rilevata

Note

Il libretto è trascritto anche nelle schede nn. 7628, 7502, 7982 e 8608.

Titolo uniforme

Che tirannie son queste. Forma non specificata

Bibliografia

Trascrizione del testo poetico

ATTO III
SCENA PRIMA

Flavio, Valerio

Flavio: Che tirannie son queste?
Non mi dir, più ch’io taccia.
Quando pietà celeste
Con larga man cortese
A preghiera d’Agnese
Mi riconcede il giorno,
Mi ritorna a la vita;
Vedrò, ch’alma infierita,
Vedrò, ch’alma rubella
Contra una verginella
Prepari di dolor scene funeste?
Che tirannie son queste?
Non mi dir più ch’io taccia
Da le fauci di morte
Mi rapisce pietosa
E di due vite in sorte a me fa dono
E posta in abbandono
La paterna pietate, in guiderdone
Invece di corone
Io vedrò, che tormento a lei s’appreste?

Valerio: E soverchio rigore,
Io lo confesso anch’io:
Ma per frenare e l’impeto e ’l furore
De’ patrij sacerdoti,
Forza fu l’esser crudo,
A chi sorse nel core era più pio.

Flavio: Cerchi pure altro scudo
A la sua ferità. Scettro sovrano,
Al mio gran genitore
Di sostener fu dato
E ben potea sua mano
Dar nove leggi al popolo adirato.

Valerio, Ah, che più lieve impresa
È frenar un torrente
D’ira gonfio e d’orgoglio,
Ch’al furor cieco insano
D’un popolo fremente il far contesa.
Quando del tuo successo
S’udì l’alta novella
Correr vedesti i sacerdoti a volo;
E in questa parte e in quella
Del popolo venir più d’uno stuolo
E tutti d’ira accesi
De’ Numi vilipesi
Degli oltraggiati altari
Al tuo gran genitor chiedea vendetta
E di Cesare offeso
S’udian contra il suo regno
Procurar l’ire e minacciar lo sdegno.
Credilo pure a me,
Che fu savio consiglio
Fra sì temuti affanni,
In sì strano periglio
Far, che giudice Aspasio
Innocente l’assolva o la condanni.

Flavio: Come cieco t’inganni!
A chi non è palese
La fierezza d’Aspasio e l’empietà?
E vorrai tu, ch’Agnese
Vi ritrovi pietà?
Credi a me, ch’io non erro,
Il mio dolor non mente,
Sento arrotarsi il ferro,
Corre già miro il sangue
De la bella innocente e par ch’in seno
Or vendetta mi sgride;
In virtù del mio Dio
Quella son’io che diedi
La vita al figlio e ’l genitor m’uccide.

Valerio: Torna Flavio a suoi piedi.
Chi sa, che non si pieghi
E non trovin pietà
Nel cor d’un genitor d’un figlio i prieghi?

Flavio: Da la sua ferità
Poco spera il mio pianto,

Valerio: Non disperar mai tanto.

Flavio: Quando fia, che s’annide
In un petto qua giù ragion di stato;
Ogni legge v’uccide,
Ordine più non cura,
Ogni cosa calpesta;
Sia del Ciel, de le genti, o di natura.
Io però non ricuso
Di tornar genuflesso a le sue piante:
Ma la mia tema accuso:
A pregar mi preparo.

Valerio: Torna indietro mio core;
Non scoprir le tue pene;
Cela pur le catene,
Che non veduto al pie’ t’avvinse Amore.
Non giunga no, non giunga
La tua fiamma cocente
A palesar su ‘l volto i miei deliri.
Entro gli angusti giri
D’un caldo seno ardente
Restino pur sepolti i tuoi sospiri.
Con un guardo improviso
Messaggiero di foco,
Che da l’arco d’un viso
Avventò nel mio petto Emerentiana,
Malaccorto, ch’io fui,
Giunsemi a poco a poco
Ne le viscere mie fiamma sì strana,
Che quasi ebbe possanza
D’incenerirmi in sen l’alma e la vita.
Ma negli altrui perigli
Fatto cauto il pensiero
A più sani consigli il varco apersi.
Di penar non soffersi
Sotto il giogo crudel d’un rio tiranno.
Mi rivolsi a quel fero,
A quel crudo, a quell’empio,
Nel cui sen, nel cui viso
Altro di lieto mai scorger non lice,
Ch’un livido sorriso,
Che vi portano ognor l’aspre venture
D’un misero infelice.
Da sì barbare offese,
Da catene sì dure
Ragion mi sciolse e libertà mi rese.
Stenda in campo la beltà
Tutta fiamme, tutta foco;
Del mio core e che sarà?
Le sue forze vaglion poco,
Se non l’arma la pietà.
Un torrente di splendori,
Un diluvio di faville
Sovra un volto in mezo ai fiori
Si divida in due pupille.
Dal suo cielo a mille, a mille
Piova strali in ogni loco
La bellezza quanto sa;
Del mio core e che sarà?
Le sue forze vaglion poco
Se non l’arma la pietà.

SCENA SECONDA
Prefetto, Flavio

Prefetto:
E dove, e dove o figlio
Così turbato intorno
Movi solingo il piede?
Assai miglior consiglio
Sarebbe il far ritorno,
A la paterna fede
E lasciar, che svanisca
De’ ministri del tempio
E del popol seguace il furor stolto.
Sai pur, ch’in un raccolto
D’ira tutto s’accese
E come irato in volto
Sentì l’alto stupor del tuo successo?

Flavio: Sarà dunque migliore
E più strano consiglio
Con memorando esempio
Queti lasciar, che de la bella Agnese
Faccian barbaro scempio.
Non è padre così? dove s’intese
Di crudeltà già mai più strano eccesso?
Render’a un genitore
Unico figlio da la morte oppresso
E con pena infinita
Togliere a chi lo rese
Per mercede la vita!

Prefetto: Non è volere ingiusto,
Che ragion fugga o schive
Quei, che teme a ragione
Ne lo sdegno cader del grand’Augusto.

Flavio: E sarà lieve intanto
Ne la desta cader d’un Dio, che vive?
Se bagnate dal pianto,
Se da sospiri accese
Doloroso al tuo piede,
Sparsi padre già mai calde preghiere;
Deh non sdegnare, o Dio
Questa, ch’umil ti chiede
De l’infelice Agnese in don la vita.
Ma che dissi d’Agnese: il core errò:
Quanto dissi, è follia:
Io ti chieggio Signor la vita mia.
Questa ch’ebbi da te mi fu rapita:
E s’ad onta di morte
Io pur vivo, io pur spiro;
E miracol d’Agnese,
Che dal suo, dal mio Dio l’ottenne in sorte.
Padre, che non rispondi;
Dove il guardo raggiri?
Come tacito parti? ove t’ascondi?
Senti le mie querele.

Prefetto: Dura necessità mi fa crudele.

Flavio: Padre, Signore ascolta,
Ascolta il dolor mio.
Ma che padre diss’io?
Volgi pur crudo in altra parte il ciglio.
No, no, non son tuo figlio:
Quel, che tuo figlio fu, giace sotterra:
E quando il Ciel mi diede
Di far novello acquisto
Di quest’aura vitale;
A GIESÙ nacqui e ’l genitor fu Cristo.

SCENA TERZA
Teodoro

Teodoro: Quai mi giungono al petto
Di sventure e d’affanni aspre novelle!
Odo turbe rubelle
Mover con fiero aspetto
Ne le viscere mie spietata guerra:
E già rimiro, o figlia,
Del tuo sangue vermiglia
Tutta d’intorno rosseggiar la terra!
So ben, ch’al tuo languire
Empir vedrò d’alta allegrezza i Cieli:
Ma quel duol, quel martire,
Che natura per te nel sen mi pose,
Voglio, ch’io mi quereli;
Voglion, ch’io mi lamenti
Di quel crudo inumano,
Ch’armato di tormenti
Nel mio cor, nel mio sen stende la mano.
E chi misero (o Dio)
E chi non piangerà
Con lagrime di sangue
Figlia la tua beltà,
Che sfiorisce, che langue
Sotto i colpi d’un empio e d’un tiranno?
De’ miei lunghi martiri,
De l’eterno mio danno
Saran lingue indefesse i miei sospiri.
Ma, che, folle, pretendi
Tormentato mio core?
Con voce di dolore e di cordoglio
Ah che purtroppo offendi
L’innocenza, la fede e la costanza
De la mia vaga Agnese.
No, no più non mi doglio,
Io più non mi querelo:
Con novella speranza
Vie più contento e lieto
Ne la pietà del Cielo
Io le mie voglie, i miei desiri accheto.

Perché fiero a nostri danni
Frema il mondo e fiamme avventi;
Ne le pene, ne gli affanni
Non sia no, chi si spaventi.
Serenate egri viventi,
Serenate i vostri rai.
La divina pietà non manca mai.

SCENA QUARTA
Sacerdoti, Aspasio

Sacerdote 1: Vesto pur’oggi Aspasio
Di giusta crudeltà l’alma e ’l pensiero;
Ch’a pro de’ nostri tempj
Vendicator severo
De la sua deità Giove t’elesse.
Cerca pur d’esser fero:
Caggian le frodi oppresse
D’un’empia incantatrice e folle impari,
Come s’armi di sdegno
Il gran tonante a vendicar gli altari.

Sacerdote 2: Il tuo cor si prepari
A non curar de la pietà l’assalto
E vestito di smalto
Saggio l’animo avvezza
I colpi a sostener, che nel tuo seno
Di furto avventerà sua giovinezza.
Cinta d’un bel sereno
Forte mago in un volto è la bellezza.

Aspasio: Timor più non v’assaglia:
D’ogni lusinga armata
Scenda pur la pietà meco in battaglia;
Che troverà del cor sovra le porte
Odio e disprezzo a contrastar l’entrata
Fiero strale di morte
Giove sovra di me sdegnato avventi;
Se l’empia incantatrice
Supplice adoratrice
Non s’inchina al suo nume e se contende
Tra fieri lacci avvinta
A pie’ de’ nostri altari,
Aspasio mora, se non cade estinta.

Sacerdote 1: Generosa fortezza!

Sacerdote 2: Giustissima fierezza!

Aspasio: Son de la vita indegno,
S’io manco a la promessa:
Prendete voi qui la mia fede in pegno.

Sacerdote 1: L’opra è degna di te: da la radice
Svella pur la tua mano
Pianta tanto infelice.
Sorge dal suol picciola verga appena
Crescendo a poco a poco,
Ch’in breve spatio adulto
Quel tenero virgulto
Spatioso d’intorno
Con le verdi sue braccie il suolo adombra
E par, ch’in ogni loco
Anco del sole a scorno
Già fatto un bosco altrui nasconda il giorno.

Sacerdote 2: Pria che più cresca il foco,
Il tuo braccio l’estingua.
Cener mal custodito
Spesso nasconder suole
Nel più tacito seno ardor sopito,
Che vigoroso poi
Le sue forze riprende
E con gl’incendi suoi minaccia il sole.

Aspasio: Smorzerò la favilla,
Ch’il mondo arder si vanta:
Reciderò la pianta,
Pria che la terra oscuri,
Pria che frondosa e folta
Del sole i rai ci furi.

Sacerdote 1:
A sì giusto pensiero il Cielo arrida.

Aspasio: Su, su ministri miei
Conducetemi voi la maga infida
E vederà costei
Tra ’l rigore e l’asprezza,
S’armati i nostri dei
Sanno irati punir chi li disprezza.

Sacerdote 2: Ecco l’empia omicida.
Mira come ricopre
Sotto volto innocente
Di sua perfida mente
E le menzogne e l’opre.

SCENA QUINTA
Aspasio, Agnese e Sacerdote

Aspasio: E fin’a quando Agnese
Irritar vorrai tu l’ira di Giove?
E de la man tonante
Non paventar qua giù l’inclite prove?
Or che nel tuo sembiante
Primavera ridente
I più bei fiori accese,
A più savj consigli apri la mente.
Non aspettar, ch’ardente
Contra il proprio tuo cor s’armi il mio sdegno.

S. Agnese: Purché sdegnato, ohimé,
Non s’accenda a miei danni
Quel Dio, che sovra un legno
Volle morir per me;
Io non pavento affanni.
Contra il tuo cor sdegnato,
Quando ferve più crudo,
Io nel sen del mio Cristo
Fuggirò, troverò securo scudo.
E se morir m’è dato;
Farò tra quelle piaghe
Di più leggiadra etate eterno acquisto.

Sacerdote 1: Tempo Aspasio non è di far dimora.

Sacerdote 2: Mora la cruda, mora.

Aspasio: Con pretiosi fumi
D’incensi peregrini
Il tuo cor si prepari
De’ nostri Numi a riveri gli altari.

S. Agnese: E qual degno sarà de’ vostri Numi,
Ch’umile altri l’inchini?

Aspasio: Il dio de le battaglie, il dio guerriero;
Al cui scettro famoso,
Al cui famoso impero
Con sollecita cura
Sacrò Roma le mura.

S. Agnese:
Quel, che visto fu già di ferro cinto
Adorator lascivo
Degli altrui letti insidiar le piume
E spettacol festivo
S’offerse al mondo in dura rete avvinto?
Numi degni di voi.

Sacerdote 1: E tu soffrir lo puoi
Aspasio e non vibrar sdegni e vendette?

Aspasio: Supplice, riverente
Inchina genuflessa il dio tonante.

S. Agnese: Quel, che profano amante
Converso in pioggia d’oro
Di feminil bellezza
Scese impudico a violare il letto?
Quel, che cangiato aspetto
In sembianza di toro
Portare ebbe vaghezza
Per l’immenso oceano
Di pudica beltà furti graditi?
Degno, ch’altri l’imiti.
Altro nume qua giù
Io riverir non voglio,
Che ’l mio sposo, il mio Cristo, il mio GIESÙ.

Aspasio: Su su ministri su;
Si punisca l’orgoglio
D’una lingua spergiura:
Sia dannata a le fiamme e in un momento
Vivo rogo accendete a lei d’intorno,
Che con novo spavento
Nel suo fulgore aggiunga giorno al giorno.

Sacerdote 1: A la grand’opra intento
Io di sudar non curo

Sacerdote 2: Io di mia mano, io giuro,
Tra quegli aridi Dumi
Esser primiero ad avventare il foco.
Oh prendi, folle, a gioco
Sui riveriti altari i nostri Numi!

SCENA SESTA
Flavio e detti

Flavio: In me, in me sfogate
De la vostra empietà crudi, lo sdegno:
Vostro furore invoco;
Io di morir son degno,
Per me s’accenda il foco;
Per me s’appresti il rogo. In tanto duolo
A me, a me conviene
In mezo a le catene
Tra gl’incendij spirare a Dio quest’alma.
Non mi togliete voi quel, ch’è mia palma.

Aspasio: Dove cieco trascorri?
E come, o Flavio, tu de’ nostri numi
Il sacro culto aborri?

Flavio: In me, in me volgete
Crudi ministri il ferro, in me volgete
L’armi del furor vostro.
Nutrisco un cor, che forte
Sostener non paventa,
Quanto mai di crudel s’abbia la morte.
Se d’Agnese chiedete
Voi di troncar la vita;
In me l’armi volgete:
Sia questo cor d’ogni tormento il segno.
In me, in me sfogate
De la vostra empietà, crudi, lo sdegno.

S. Agnese: Qual consiglio ti guida,
Misero e che pretendi?
D’una fiamma omicida
Questo mio cor bastante
Non sarà forse a sostener gl’incendj?
Volgi altrove le piante.
Ho core anch’io, che solo a ciglio asciutto
Timido non ricusa
D’una morte incontrar l’errore e ’l lutto.

Flavio: Se tua pietà mi diede
Far di due vite acquisto;
Perché non mi concede,
Ch’a te l’una si renda e l’altra a Cristo?

S. Agnese: In altra parte il piede
Rivolgi amico e del tuo cor la brama
Co ’l mio volere acqueta:
Per diverso camino il Ciel ne chiama.
Strada forse più lieta
E non di affanni piena,
La divina pietà per te prepara.
Sia la tua fè costante;
Non cangiar tu sembinte;
Che mi farà la morte assai più cara.

Aspasio: Abbiamo fine omai le tue follie,
Flavio, e si doni un cor d’amore ardente,
Se de le furie mie
Non cade sopra te l’ira fremente.
Riducetelo altrove e l’empia ardete.

Sacerdote 1: Già le fiamme son pronte.

Aspasio: Ite, il rogo accendete e vedrem poi,
Come forte difenda
Quel suo Dio crocifisso i servi suoi.

S. Agnese: Queste fiamme, questo foco,
Che sì vivo ardendo sta;
Dolce scherzo, lieto gioco
Al mio cor sempre sarà,
Su fiamme ardete,
Quanto sapete:
GIESÙ mio bene
Sono dolci per te tormenti e pene.
Ardete fiamme, ardete:
Nel più fiero tormento
Il mio core è contento,
Le mie voglie son liete;
Ardete fiamme, ardete.
Il vivo foco
Per te Signor, per te mia vita è poco.

Aspasio: E che strepito io sento!
Che querele son queste
Lagrimose, funeste?
Che dolor? Che lamento?

Sacerdote: Pietà, soccorso, aita.

Aspasio: Chi vi toglie la vita?

Sacerdote:
Come imponesti, io di mia mano accesi
Le prime fiamme e vendicar credei
Degli oltraggi dei l’ingiurie e l’onte;
Quando con voglie pronte
Le luci al Ciel rivolse
La cruda incantatrice e in novi accenti
La lingua al canto sciolse.
Et ecco in un’istante,
Come ridir non so, la fiamma ultrice
Dal suo lucido seno
Partorisce saette e tuoni e lampi
E contra i tuoi ministri
Par, ch’intorno sdegnato il cielo avvampi.
Chi ferito vien meno,
Chi si duol, chi sospira,
Chi languisce, chi more
E tutti al Ciel’in ira
Fuggno de le fiamme il rio furore.

Aspasio: Ma fra tanti spaventi
Non vacilla il mio core:
Troverà l’ira mia novi tormenti.

S. Agnese: Spirti eterni, alme beate,
Che portate in giro il dì.
Gareggiando riverite,
Benedite
Chi la terra stabilì.
Molli pioggie, freddo gielo
Benedite
L’alta man, che fece il Cielo.
Chiaro sole e pura luna,
Notte bruna e bel seren;
Alternando riverite,
Benedite
Quei, ch’al mare ha posto il fren.
Fiamme ardenti, atre procelle
Benedite,
Chi le sfere empì di stelle.

Sacerdote 1: Già le fiamme son spente,
Già da la pira illese
Tratte ha le membra Agnese:
E tu negletto a segno
Terrai de la tua mano
Otioso il furor, lento lo sdegno?

Aspasio: Estinta a terra cada;
Bagni di sangue il piano:
Dove non giunge il foco , entri la spada.
Su l’essecrabil testa
Cada ferro pungente:
Questa vittima Aspasio a Giove appresta.

Paese

Italia

Lingua

Italiano

Segnatura

I-Rv - Roma - Biblioteca Vallicelliana
fondo Borromini
collocazione S. Borr. Q.IV.223.48

Scheda a cura di Nadia Amendola
Ultima modifica: