Scheda n. 7628

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Scheda inferiore

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Testo per musica a stampa

Data

Data certa, 1667

Titolo

La S. Agnese drama per musica. Prologo La Virginità. I atto.

Presentazione

Legami a persone

autore del testo per musica: Benigni, Domenico (1596-1653)

Pubblicazione

Copia

Descrizione fisica

Parte seconda, pp. 1-23

Filigrana

Non rilevata

Note

L’intero libretto occupa le pp. 1-82 della seconda parte della raccolta. Il testo si trova anche nelle schede nn. 7502, 7982, 8083 e 8608 Il prologo e il libretto del dramma sono preceduti dall’argomento e dall’elenco dei personaggi.

Titolo uniforme

Scesa di là dov'in se stesso eterno. Forma non specificata, La S. Agnese drama per musica. Prologo La Virginità

Bibliografia

Trascrizione del testo poetico

Scesa di là, dov’in se stesso eterno
Triplicato fiammeggia il Re del Cielo,
Vi dirà, chi mi sia, se ben discerno,
Il mio volto, il mio carro e questo velo.

Di luce in paragon vinta mi cede
Qual più splende la su lucida stella:
Casto sen, pura voglia e bianca fede
Anche fra voi virginità m’appella.

Io qua scendo a mirar d’Agnese i vanti
C’oggi su ’l Tebro in periglioso AGONE
Contra i ricchi tesori e contra i pianti
D’impudico amatore entra in tenzone.

Sia pur, lumi del Ciel, con vostra pace;
Quelle soglie d’infamia, ove a pugnare
Già già posta vedrò la mia seguace,
Splenderanno del sole assai più chiare.

Allor che le COLOMBE in Vaticano
Liete si adorneran di tre corone;
D’ogn’intorno vedrà sorger dal piano
Ricche moli fastose il fiero AGONE.

Darà Memfi superba i propri Saffi,
Perch’eterna sua gloria al Ciel sormonti
E tributarj in terra all’or vedrassi
Correre i fiumi e sviscerarsi i monti.

O COLOMBA al Ciel gradita
Godi pur de’ tuoi gran pregi;
Che su ’l Tebro in mezo a regi
A regnare il Ciel t’invita.

Tua mercé su ’l Regio Soglio
Di virtù fra nobil coro
Vedrà il mondo i giorni d’oro
Ritornati in Campidoglio.

ATTO PRIMA
SCENA PRIMA
Flavio, Valerio

Flavio: No, mio cor, non gridar più;
Lo confesso, io sono amante:
Lo splendor d’un bel sembiante
M’ha condotto in servitù.
No, mio cor, non gridar più.
Già lo so, ch’un guardo solo
Di beltà, benché serena,
Condennato in mar di duolo
Mi terrà sempre in catena:
Già lo so, che la mia pena
Mai trovar non spera aita:
Ma sì dolce è la ferita,
Che soffrirla anch’è virtù:
No mio cor, non gridar più.

Valerio: Soavissimi accenti
Degni di Flavio al fine,
Che con note divine
Sa per lo cielo incatenare i venti.

Flavio: Dove, dove Valerio il pie’ raggiri?
Dove tacito vassi?
Non spunta ancora in Oriente il giorno;
E tu solo d’intorno
Movi per l’ombre sconosciuto i passi?

Valerio: Flavio tu, che sovente
Raccogliesti i sospiri
D’un’anima dolente
Che seguace d’amore
Offre a cruda bellezza i suoi deliri;
Scuserai del mio core
Le sollecite cure;
Se mal gradito amante
Fra le tenebre oscure
Movo talor le piante.
Ma tu fuor de l’usato
Come inquieto e solo
Lasci le molli piume?

Flavio: Un sollecito desio,
Ch’io non so, se sia mio,
Su le palpebre, che posar non ponno,
Con non inteso assalto
Importuno guerrier m’uccide il sonno.

Valerio: Taci Flavio, non più
Ch’omai pur troppo offendi
De la pura mia fede il bel candore.
Degli amorosi incendi,
Ch’entro porti nel core,
Su la scena del viso
Miro già fiammeggiar l’alto splendore.
I sospiri cocenti,
Ch’improvisi dal sen partono a volo,
Sono lingue del duolo,
Che palesano altrui fieri tormenti:
Sono voci de l’alma;
Messi del cor non sano:
E foco Amor, che si nasconde invano.

Flavio: Frena amico gli accenti.
Se star sempre in sospiri,
Se bramar di morire,
S’in odio aver se stesso,
Amar ciò si può dire;
Sono amante, io lo confesso.

Valerio: O quante volte, o quante
Nel tuo pallido volto
(E so, che non m’inganno)
Scritto lessi l’affanno,
Che porti forse nel tuo seno accolto!
E me ’n duolsi e m’offesi,
Ch’a me fusse tacciuto,
Dolor, che si divide
Con la fe’ de l’amico, è meno acuto.

Flavio: Vaneggiar gli occhi miei:
Posi, incauto ch’io fui,
In Agnese lo sguardo e ’l cor perdei:
In Agnese, ch’ovunque il guardo gira,
Fiamme a l’anime spira.
Veduto hai pur sovente
Povera farfalletta,
Ch’a pura luce ardente
Va’ girando d’intorno
E mentre semplicetta
Or fugge, or fa ritorno;
Or si scopre, or s’invola;
Tanto scherzando vola
Curiosa invaghita
Al sereno splendor di sì bel lume,
Ch’arsa incauta le piume
Poca cenere al suol perde la vita.
Sovra l’ali d’amore
Così misero appunto
Di quegli occhi sereni al dolce invito
Lieto corse il mio core
Or timoroso insieme e ora ardito.

Valerio: Degna de’ tuoi sospiri!
Suo valor, sua beltate,
Sua giovinetta etate
Può ne’ sassi destar fiamme e desiri.

Flavio: Ma che mi vale, ohimé,
Se quanto Agnese è bella,
Disprezzando mia fè
Tanto è d’amor rubella?
Prende il mio amore a gioco,
Mostro di ferità
Porta il ghiaccio nel cor, negli occhi il foco.

Valerio: Non disperare ancora;
Segui pur tuo desio:
Non va senza mercede alma, ch’adora.

Flavio: Quel, che sperar poss’io
Ne l’amorosa arsura
E baciar questi sassi,
Adorar queste mura: e così spesso
Ingannando me stesso
Movo, misero, i passi
A queste soglie intorno.
E perché so, che pria, che rieda il giorno,
Suol la nemica mia
Talor dolce armonia
Movere a l’aure; io torno
Per temprar con gli accenti
Di due labra canore i miei tormenti.

Valerio: Ne le scole d’amor che non s’impara?
Ma che dolce concento
Di corde armoniose,
Flavio, è quello, ch’io sento?

Flavio: Sarà la bella e cruda
La ritrosa, la maga,
Che di pietade ignuda
M’incatena, m’impiaga.

SCENA SECONDA
S. Agnese dentro, Flavio e Valerio in strada

S. Agnese: Lava, Signor, quest’alma
E pietoso al mio scampo
De la tua gratia un lampo
Sia del mio cor la palma;
Lava Signor, Signor lava quest’alma.
Torbidi fiumi
Versino i lumi:
Se tua pietà non spira aura vitale;
Di pianto amaro un ocean che vale?

Flavio: Di sì dolce concento,
D’armonia sì gentile
Una nota, un accento
Può d’Averno addolcir ogni tormento.

Valerio: Ah, che gli orbi celesti
Non hanno, credi a me,
Accenti, come questi.

Flavio: Su le stellate soglie
Io giurerei, ma senti,
Che di nuovo la lingua al canto scioglie.

S. Agnese: O bella, ch’in cielo
Di schiera divina
Con lucido velo
Sei fatta regina
E poco al tuo nome
Che fregio di stelle
Più chiare, più belle
Coroni tue chiome.
È poco, è poco al tuo nome.
Bellezza infinita, ch’il sole innamora,
Divoto s’inchina e muto s’adora.

Flavio: O sentenza spietata!
Vuol, che muto io l’adori.
E chi pensar potea,
Ch’anima sì gelata
Tra quei candidi fiori
S’ascondesse per me sotto quel volto?

Valerio: Come, come sei stolto!
Credi tu, ch’in quel seno
Di tua fortuna un lampo,
Di tesori un baleno
Non sappia aprirsi il campo?
Se le saette d’oro
D’amore armano l’arco;
Indarno chiude il varco
Beltà cinta di smalto:
A le saette d’or cede ogni assalto.

Flavio: Credi a me, che t’inganni.
Quante cura ingegnosa
Per l’eritree maremme
Scelse famose gemme,
Tutte d’offrir tentai
Adorator divoto al mio bel sole:
Ma superba, fastosa
L’empia, che mi disprezza,
Chinar non degnò mai
A miei doni il fulgor di sua bellezza.
Nel mar rigido scoglio
Non così fermo e saldo
D’aquilone sostien l’ire e l’orgoglio,
Come costante e forte
La bella, onde mi moro,
Sprezza di mia fortuna ogni tesoro.

Valerio: De l’amorosa arsura
Non disperare, amico,
Così presto la cura.
Se la bella, ch’adori,
Contra di te si adira
Armata di rigori;
Prega, piangi, sospira
Non è sì duro un cor, che non si pieghi
A le calde querele,
Agli amorosi prieghi,
Che bagnati dal pianto
Sparge a l’aure sovente un cor fedele.

Flavio: Questa sola mi avanza
Disperata speranza.
Pregherò, piangerò; ma il cor mi dice,
Che nel petto d’Agnese
Perderà le sue voci alma infelice.

SCENA TERZA
S. Agnese, Livia

S. Agnese: O come lieto e bello
Spunta la l’onde fuora
Per l’immense campagne il dì novello!
Coronata di rose e di viole
Messaggiera del sole
Certo non si aprì mai più vaga aurora.
Moviam, madre le piante
Per vie non più segnate
A riverir divote
De’ celesti campion l’urne beate:
Di quei campion, che forti
Fra le stragi e le morti
Con intrepido viso
Sparsi tutti di sangue
Ne’ lor proprj martiri
Seppero in terra aprirsi il paradiso.
Ma tu, madre, sospiri?

Livia: Sento, Agnese, un timore,
Che freddo a poco, a poco
Mi va serpendo in seno e giunge al core.

S. Agnese: Lassa, di che paventi?

Livia: Io pavento,

S. Agnese: Di che?

Livia: Io pavento di te.

S. Agnese: E qual posso dar’io
Materia di timore al tuo desio?

Livia: Quando talor pietate
A pensar mi conduce
Con qual furore, o Dio,
Sfoghi sua crudeltate
Su la gregge di Cristo ogni tiranno;
Temo, misera, temo,
Ch’a quest’empj, inumani
Alfin nota non sia
La nostra fede e che noi siam cristiani!
Ben con desir contenti
Volontaria saprei
Incontrar le catene,
Calpestare i tormenti,
Non curar le mie pene:
Ho core anch’io nel petto,
Che forse si dà vanto
Sostener d’un tiranno il crudo aspetto:

S. Agnese: Timor forse t’assale,
Che la mia verde età
O timorosa, o frale
Non sia forse bastante
A sostener lo sdegno e l’empietà?
O che non sappia ancora
Di lusinghiero invito
Disprezzare il mio cor vezzi e promesse?

Livia: Quest’è quel, che m’oppresse
Con timore la mente;
Quest’è quel, che m’accora.
In età sì ridente
Così tenera e molle,
Come lassa potresti
Di flagelli funesti
Figlia non penetrar l’ira crudele?

S. Agnese: Con forze frali, inferme
E che dubbio, che sola
Io giovinetta inerme
Già durar non potrei nel fiero agone?
Ma s’io scendo guerriera
In virtù del mio Cristo a la tenzone;
Vengano a schiera, a schiera
Le catene, le croci,
I tormenti più atroci:
Contra un tiranno crudo
Io non ricuso no d’entrare in campo!
Mio Redentor, mio Dio
Sotto il tuo forte scudo
Trova giusto desio sempre il suo scampo.

Livia: E ti darebbe il core
D’incontrar coraggiosa anche un martire?

S. Agnese: E perché no? Fastosa
V’accorrerei, s’in forte
Mi degnasse a tal gloria il Signor mio
E gradirei la morte
Con quella gioia appunto,
Ch’io sentirei nel seno
In vedermi dal Ciel sposare a Dio.
Non sei madre contenta?

Livia: Per dolcezza mi sfaccio,
Né ritener poss’io
Le lagrime, ch’il cor dal ciglio avventa:
Prendi, figlia, un abbraccio.
Tanta gioia io chiudo in petto,
Che sperar non posso più:
Ma pur tempo a mio dispetto
E ’l mio cor sempr’è qual fu.
Cure lasciatemi;
Abbandonatemi.
Che sarà? dicalo il Cielo:
Sono colma di gioia e mi querelo.

SCENA QUARTA
Prefetto, Aspasio

Prefetto: È picciol campo di battaglia un core.
Aspre cure inquiete
Da me che pretendete,
Che con tanto rigore,
Che con sì fieri assalti
L’armi movete a lacerarmi il seno?
Una brev’ora almeno
Date pace al dolor, che mi trafigge.

Aspasio: Qual tormento, Signore,
Così forte ti affligge,
Che di cure noiose empie la mente?
Tu di Roma prefetto
Riverito, possente
Paventerai d’empia fortuna i colpi?

Prefetto: Ah non invano il mio timore incolpi.
A temer son costretto
E nel proprio mio petto
La paterna pietà fa, ch’io paventi
I miei propri tormenti.

Aspasio:
E che? Flavio il tuo figlio
Sarà forsi cagion di tanto affanno?

Prefetto: Io me stesso condanno:
Ei mi sforza a temer quel, che non voglio!

Aspasio: Fa palese il martire,
Scoprasi il tuo cordoglio.

Prefetto: Odi Aspasio il mio dire
E ti tocchi pietà di mie sventure.
Era su l’ora appunto,
Che con mano innocente
Per fregiarne le chiome
Va cogliendo i suoi fior l’alba ridente;
Quando, amico, io non so, se desto, o pure
Da lieve sonno oppresso
Misero padre, io stesso
Vidi Giove sdegnato
Con pungenti saette
D’aspro furore armato
Chieder nel sangue mio crude vendette:
E vidi (ahi vista, ahi doglia!)
Togliermi di sua man l’aurato scettro.
E non vuoi, ch’io mi doglia?

Aspasio: E questo ti tormenta?

Prefetto: Questo il mio cor paventa.

Aspasio: Son sogni bugiardi,
Son larve mendaci,
Che fra l’ombre più scure
In un seno di furto
Entrano a conturbar le nostre paci.

Prefetto: No, no, si tenti pure
Placar Giove fremente.
Sparsa di puro zelo
Calda preghiera ardente
De le saette sue disarma il Cielo.

SCENA QUINTA
Lucifero con sua corte

Lucifero: Quando vi satierete
Di tormentarmi più Cieli spietati?
Fra quest’ombre dannati
Non basta ancor, non basta,
Che cieca notte oscura
In servitù sì dura
Ci nasconda del sole i raggi aurati?
Non basta, ancor, non basta,
Che tra lacci di foco
(Ahi tormento, ahi martire!
Dentro il mio vasto impero
Incatenino irati il nostro ardire;
Che temeraria ardisce
Verginella orgogliosa
Per questo orrido e tetro
Carcere di dolore
Mover guerra nemica al nostro scettro?
E tu, mio cor, che fai?
Timido soffrirai,
Che s’oltraggi il tuo nome e si calpesti?
E sian glorie neglette i pregi miei?
Chi è, chi è costei,
Che con lingua di latte
Disprezzando il mio sdegno,
Folle, o cieca combatte
Contra il nostro valor, contra il mio regno?

Ministro: Dove superbo il Tebro
A la città di Marte
Bacia l’inclite mura,
Fra donzelle latine
Una ve n’è, ch’oscura
Il più chiaro splendor de l’altre belle:
Ma quel, che mi tormenta,
Che m’affligge e mi coce
E che fatta è di lui seguace ancella?
Che tra ladroni indegni
Spirò l’anima in croce.

Lucifero: Tu m’uccidi. Chi è? Come si appella?

Ministro: Agnese è la spergiura,
Ch’il valor tuo non prezza,
Ch’i tesori non cura,
Ch’odia la sua bellezza.

Lucifero: Tanto ardisce costei, tanto presume?

Ministro: D’un sanguinoso nume
Ch’a la morte si rese,
Va sognando a se stessa opre e stupori,
E con strane sembianze
Di non più intesi ardori,
D’Imenei favolosi il petto accese.
E tu del nostro impero
Arbitro riverito
Soffrirai, ch’impunito
Vada di quella rea l’empio pensiero?

Lucifero: No, no, non sia mai vero.
Se l’amoroso invito
De le lusinghe mie si prende a gioco,
Corrasi pur’al foco
E svenata, trafitta
Sovra l’arida sabbia
Cadavero spirante
Sia pur degno trofeo de la mia rabbia.
Ite ministri miei,
Che più, che più si tarda?
Voi nel sen di colei guerre movete.
Vadane il ballo e ’l gioco
E con nove divise
In quel petto di ghiaccio accenda il foco.
Giunti a l’aure, aggiungete
A voi stessi compagni il suono e ’l canto!
Che non si sdegnan questi
Sotto leggiadro manto
Accompagnar talora
Di soave armonia canori accenti
Per debellare un petto,
Che non senta d’amor faville ardenti.
Sanno questi di furto
Con armi insidiose
Aprirsi il varco, onde si passa al core
E scherzando il diletto
A poco, a poco vi conduce amore.

Tutti: Su a vendetta, a l’armi, a l’ire.
Contra un cor, che ci disprezza.
Fragil fior dite a bellezza
Provi, senta il nostro ardire:
Su vendetta, a l’armi, a l’ire.
Che fate, che dite?
Ardite, pugnate,
Pregate, ingannate,
Sia vostra la palma.
S’oppone in van con le sue forze un’alma.

SCENA SESTA
Livia, S. Agnese, Flavio

Livia: Basta, Flavio, non più:
Ferma, ferma , le piante:
Che troppo è grand’ardire
Questo, c’oggi ti pigli.

Flavio: E che? debbo morire
In dura servitù
Sempre tacito amante? i miei perigli
Voglion pur, ch’una volta
A l’aure si palese
Quella fiamma ch’in seno io porto accolta
Per la mia bella Agnese.

Livia: Dì, qual legge il concede,
Che nobile donzella
Piena tutta d’onore
Su per le strade intenta
Per udir tuoi deliri arresti il piede?
Chi lo concede?

Flavia: Amore,
Amor, ch’il tutto regge;
Amor dentro il suo impero
E giustissimo nume e non ha legge.
Ma se puro è ’l pensiero,
S’onesto è ’l mio desire,
Qual dura legge e sorte
Mi condanna a tacer sì giuste voglie?
Odioso, aborrito
Sarà tanto ad Agnese
Il nome di consorte e di marito?

S. Agnese: Per breve spatio, madre,
Soffri ch’io parli seco.
Disingannar chi cieco
Per vie distorte e arde
Move incauto le piante,
Opra sia di pietate al Ciel gradita.

Livia: Sia tua preghiera udita.

Flavio: Tributario, divoto
Offrir’oggi al tuo piede
Quante mi die’ Fortuna ampie ricchezze,
So ben, ch’è poco al merto
Di tue somme bellezze:
Ma la mia pura fede
Ogni tesoro a te consacra in voto.
A tua voglia disponi:
Non sian negletti i doni,
Che riverente al nome tuo consacro.
Non sdegnar, ch’Imeneo teco mi leghi.

S. Agnese: S’io rifiuto i tuoi doni,
Se con alma ritrosa
Io non curo i tuoi pregi,
S’io ricuso quei fregi,
Che può recarmi al crin l’esser tua sposa;
Non creder già, ch’io chiuda
In un tenero seno alma di scoglio:
No, no, non son sì cruda.
Serbo nel petto anch’io
Un cor di foco ardente,
Credilo pure a me.

Flavio: Che più dunque desio?

S. Agnese: Ma non arde per te.

Flavio: O saetta pungente,
Che mi trapassi il petto!
Così, così negletto
Sarà dunque la fe’ d’un’innocente?

S. Agnese: È giuditio del cielo e non rigore.
Se donzella vezzosa
Del tuo amor desiosa
Ti chiedesse mercede,
Lasceresti d’amarmi?

Flavio: Il sen morte mi tocchi
Pria, ch’io lasci d’amare i tuoi begli occhi.

S. Agnese: E vuoi tu, ch’incostante
Io lasci d’adorare e cangi amante?
Cessi la meraviglia:
S’a te voglia mutar non si concede;
Ragion non mi consiglia,
Ch’io ritoglia la fede
A più degno amatore.
Lascia, Flavio, d’amarmi, o cangia core.

Flavio: Taci, ch’altri più degni
Di me porti fortuna a le tue nozze;
Taci fra queste mura
Chi sia, ch’i vanti e i miei tesor pareggi?

S. Agnese:Come cieco vaneggi!
Di te più degno assai
È quell’amante, ch’il mio cor si elesse.
M’offre gioie sì belle,
M’offre palme sì pure.
Ch’in paragon di quelle
Son tenebrose, oscure
Le più lucide stelle;
Son del sole assai men chiari i rai.
Pria, che le tue promesse
Altrui non sian fedeli;
Sconvolgeransi i Cieli;
Sotto il tuo vasto pondo
Scuotersi il suol vedrai,
E ritornar ne’ suoi principj il mondo.
No, no Flavio, non è
Nobil monarca, o re,
Che tra gemme e tesori
Di pareggiar si vanti
Del mio sposo le glorie e gli splendori.
Uman pensiero industre
Tolga a l’aurora i fiori,
A le nevi i candori,
I coralli e le perle al mar sonante,
L’oro a la terra e a le stelle il lume;
Poi ne formi in brev’ora
Di sovrana beltà nobil sembiante,
Ch’agguagliar del mio sposo in van presume
La bellezza immortal, che ’l Cielo adora.
A sì degno amatore
Giurai con salda fede
Di donare il mio core;
E vivi pur securo,
Che con la vita istessa
Di non mancargli io giuro
La fede e la promessa.

Flavio: O che sempre tocchi a me
D’adorar beltà crudele;
E nel duol, ne’ le querele
Mantener viva la fè,
O che sempre tocchi a me!
Che destino è questo mio,
Ch’abbia sempre a lamentarmi
Di quegli occhi, di quell’armi,
Che fan guerra al mio desio?
Che destino è questo mio?
Fato rio, barbare stelle?
Fra le belle
Se crudele una ve n’è;
O che sempre tocchi a me!
Che giustitia è questa Amore;
Ch’in amar duo puri giri
Abbian sempre i miei desiri
Da trovar pene e rigore?
Che giustitia è questa Amore?
Rio tenore, acerbo il Fato!
Se mai dato
È servir senza mercé;
O che sempre tocchi a me!

SCENA SETTIMA
S. Agnese, S. Emerentiana

S. Agnese: Io sento Emerentiana
Un affetto sì novo,
Una gioia sì strana,
Che non la so ridire e pur la provo.
Par, ch’appunto in vederti
Io mi vegga rapir l’alma dal petto.

Emerenziana: Io con eguale affetto,
Mentre teco favello,
Sento di tenerezza empirsi il seno:
E se non vengo meno
Per soverchia dolcezza,
È miracol novello
De la pietà del Ciel, che mi sostiene.

S. Agnese: L’aver succhiato, amica,
Da le viscere istesse e ’l sangue e ’l latte
Chi sa, forse sarà, ch’in noi si deste
Stuol di cure conformi,
O gioiose o funeste.

Emerenziana: Non impugno il tuo dire:
Ma la pietà divina
Al tuo nobil desire
Cose forse più grandi in Ciel destina!

S. Agnese: Adoro i cenni suoi;
E ne’ desir costante
Fra tempeste di duolo
Non sia mai, ch’io scolori il mio sembiante.

Emerenziana: Teco il mio cor consolo;
Ne farà mai la sorte,
Ch’io da te mi divida.
Mi tormenti m’ancida:
Con noto assai più forte
Indissolubilmente
Teco mi stringerà la propria morte;
Sia la mia destra il pegno.

S. Agnese: La tua fede non sdegno.

S. Emerenziana: Non sia no, non sia chi speri

S. Agnese: Nel mondo instabile
Gioia durabile
Diletti veri:
Non sia no, chi mai lo speri.
S’en vola, s’en fugge,
Languisce, si strugge
Nostra vita in dure tempre:
Le dolcezze del Ciel durano sempre.

Paese

Italia

Lingua

Italiano

Segnatura

I-Rv - Roma - Biblioteca Vallicelliana
fondo Borromini
collocazione S. Borr. Q.IV.223.45

Scheda a cura di Nadia Amendola
Ultima modifica: