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Idillio su Deianira ed Eracle; cfr. Ovidio, Metamorfosi, IX.
Nell'indice a p. 286: "La Deinaira[.] Idillio."
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Poetical text transcription
Del gran regno d'Etolia
Reggea possente scettro
Il vecchio, e saggio Eneo;
Emula al genitore
La bella Deianira
De' più superbi cori
Teneva il freno altero;
E gli cingea le tempie
Di gemmato diadema
Ella la fronte ornava
D'aurea, e fastosa chioma,
Che se tal'or con rete d'or stringea,
Il popol de gli amanti
Dall'oro il crin, distinguer non sapea,
Ei con severo guardo
I popoli soggetti
Atterriva, atterrava,
Ella al girar d'un sguardo,
Cento cori ad un colpo
Baldanzosa impiegava.
Se col fren delle leggi
Qual Licurgo imperava
Quei popoli il gran padre,
Con le leggi d'Amore
la bellissima prole
Dominava de' cori il vasto impero.
Egli in tuoni sonori
Di bellico valor rendea gelosi
De' regi convicini
Gli impauriti spirti,
Ella in muta favella
Nel suggesto d'amore
In maestade altera
Anima delle trombe,
(Di bellica allegria)
Non sol ne' regni strani
Soggiogava, e vinceva homini invitti,
Ma più possente ancora
Del prode genitore
Su 'l tron della bellezza,
Fatta regina, e dea,
Fin colà su nel cielo,
Del suo altero poter drizzava il telo.
Nel Calidone sito
Ove la residenza
Il coronato regnator tenea,
Dilettoso frondeggia,
Verdeggiante boschetto,
In cui maestra mano
(Qual d'esperto guerriero)
Con ordini distanti
Ugualmente distinti,
Formò d'arbori, e piante
Superbissime schiere
Ivi il mirto odoroso,
Con veste di smeraldo
Trionfante spalleggia
Del trapuntato campo,
L'esercito schierato;
Ove in fila assettati
Fanno piccola strada
Al passeggio reale
Gli elevati cipressi.
Quivi a fianco si mira
Il platano, e la quercia
Stender festosi i lor robusti rami.
Colà l'eccelso pino, e 'l faggio ombroso,
Col lauro trionfale
Dall'assedio del sole
Redon sicuro il poggio;
E benché il bianco pioppo
Con le pallide foglie,
Dell'assalto paventa,
Che 'l cerro, e 'l duro bosso
Col tamarico imbelle,
Qual inermi pedoni
In tacito susurro
Del fragil loro stato additan l'orme.
Pur senza perturbare
Gli ordini del campo,
Ad un lieve soffiare
Di zeffiro spirante
(Qual di bellica tromba)
Con fremito violento
Già si scuotono a gara,
E nel cozzarsi assieme
Rappresentano a gli occhi
Mille giochi leggiadri,
Mille scherzi giocondi;
E l'odorate stelle,
Che fregiano quel piano,
Vengono anch'in contesa
Qual più meglio sa grati odori,
Qual più meglio scoprir sa bei colori.
E mentre in varie guise,
De' soavi tesor vogliono far pompa,
Verso il rettor del giorno,
Lor nemico deriso
Aprono carco d'odor festoso un riso.
Il ben munito campo
Già disteso, e fornito
D'orgoglio, e robustezza
Lasciar facea sovente
Alla real donzella, il real trono;
Qui con leggiadro stuolo
Di vaghe verginelle,
Su gli estremi brillando
Del vezzo il più gentile,
In maestà gioconda,
L'altera giovinetta,
Qual guerriera d'amore
Per far mostra più bella un dì vi giunse.
Giunse fiera, e sprezzante
Di Cupido gli strali,
Sol di se stessa vaga;
Acconciamente incolto
Havea l'habito, e 'l crine
Ch'in fila d'oro ondose
Su 'l collo alabastrino,
Con mille scherzi in riva
Ricca, e viè più superba
fluttuava Fortuna.
Indi lieta rubando
Al tenero virgulto
Il suo nativo fiore;
(Qual fa grand duce a punto)
Che con senno, e valor s'apre la strada
A' più pregiati acquisti,
Compartendo ugualmente
Con man d'Astrea le spoglie a' suoi più invitti;
Tal con le vive nevi,
Di beltà la vittrice;
Intrecciando ghirlande
Del nobile drappello
Il bel dorato crine
Coronava, e cingea.
Dopo lungo girare
Pel pietoso laberinto al fine,
Su 'l piano di smeraldo,
Posando il piè d'argento,
Vezzosetta lasciva,
Lascivetta vezzosa
Vêr le vergini illustri
Dal labro, ove la grazia
Dolcemente sedea, così proruppe.
In questo ameno luogo
Ove scherzan le grazie,
Ove con vari moti
Si trastullano a gara
Queste piante insensate;
Ove gli augei canori,
Dalle chiome d'un lauro,
All'amoroso mirto,
Fan con giri, e carole
Leggiadrissima danza,
Starem noi neghittose?
No (disse) e ratta corse,
Ove tra l'herbe ascoso,
Vide un globo di cuoio a sorte starsi.
Né fa preda, e con palma
Feritrice de' cori,
L'aria fendendo, all'avversarie sue
Lo sospinge, e ribatte;
Ogn'un s'accinge al gioco,
Ecco l'orbe infelice
In quella guisa giunto
C'hoggi tra noi si mira
L'humano, e picciol mondo
C'hebbe nel lascer suo,
Per suoi fasti ascendenti, i precipizî,
Divenir palla, e gioco
Di volubil Fortuna;
Già questa lo percuote, e quell'ancora
Ripercosso lo siegue
Ove con l'occhio esperto
Ella crede, che cada.
L'altra al corso più lieve
Pria l'afferra, e 'l ribatte,
Indi il volubil pondo
Hor s'inalza nel cielo or falla in terra.
Ivi corre a predarlo
Una più scaltra, e mentre
Ha nel suolo la mano, all'aria il piede,
Giunge misto, e confuso
Il drappello giocoso,
E spingendola a terra
Tutte a fascio nel suolo
Fanno un colle animato
Sovra l'oppresso, e straziato mondo.
Il ripercosso globo
Fé sovvenire a Febo
Che con cupido sguardo
(Colà tra rami un raggio havea drizzato)
De l'amato Giacinto il duro caso,
Sospirò, s'oscurò, ne pianse il cielo,
E le lagrime in pioggia
Già cadendo nel suol, fermo scompiglio
All'adunato stuolo;
Ogn'un s'inselva a gara
Ov'è più folto il bosco,
E mentre una si spinge,
Timida, o pur audace
In luogo più romito,
Tra gli aguati già scorge
Smisurato un serpente,
Che con piacevol lume
Par che dir gli volesse:
"Non mi scoprir (o cara) io non t'offendo,
Ché sotto questa scorza
Giace nascosto innamorato un dio".
Ella qual fusse oppressa
Da numerosi spirti,
Levò le grida al ciel, le piante al volo;
Ad imitar la sbigottita ogn'una
Si confonde nel corso,
S'avviluppa, e si mischia,
Tra le sterpi, e la gonna,
E qual gioco novello
Di leggiero pallone,
Hor da pruni fermate
Arretravano il passo,
Hor da sassi balzate
Su 'l fangoso terren facevan fallo.
E se 'l primiero scherzo
A la diurna face
Carco di duol, fé ritirare il carro,
Questo (con moti in un lieti, e confusi)
Cangiò dal ciel l'immenso pianto in riso:
Sparso di vive fiamme, e vive brine
La chioma, e 'l volto havea
Dal lungo corso stanca,
La smarrita donzella;
Quando al tetto reale
Anhelando ne giunse,
Ove stupida intese
Lo spaventoso caso
Anzi del lor gioire il crudo occaso.
Egli era questo il nume
Già signor di quell'acque,
Che 'l bel regno d'Etolia
Dall'arcaniana legion divide;
Ché in mezo all'onde sue
Per la bella Deianira arse d'amore;
Alle stille correnti
Stelle d'humor vivaci
Pel calidonio nume
Il Calidone fiume
Angiungeva, e spargeva,
E dell'orme odorate
Fatto preda, e seguace
Sotto di vari aspetti
Dell'idolo amoroso
Il già triforme dio
Dalle sue insidie guiderdon godea;
Alla per fine pur volle
La sua sorte tentar, indi al gran padre
Palpitante, e giulivo
La regia prole in sua consorte ei chiese.
Era nella gran sala
Col calidon regnante
Tra mille prodi, il più possente heroe,
Il terror de la terra,
Il domator de' mostri,
Del gran tonante il figlio, il forte Alcide.
Questo all'humida prole
Dell'Ocean, di Theti,
Girò sdegnoso il lume,
E dell'inchiesta audace
Si scoverse rivale,
Indi rivolto al regnator Eneo
Disse non senza sdegno:
"La maestà di questa
Riverita corona
D'inchiodar non permetta
Nel carcer de la bocca,
Il suon della vendetta a i miei dispetti";
Se la forza, e l'ingegno,
La prosapia, e 'l valore,
Nella terra, e nel cielo,
Anche al regno di Pluto
Non soggiace a rivale,
Vorrò dunque soffrirlo
Nel bel regno d'Amore?
Così gravido d'ira
Per farsi degno sposo
Della beltà più rara.
E per dar legge, e tema
All'avversario dio,
Del Busiri empio narra
Il debellato orgoglio,
Ch'al mauritano, o libico gigante
Già figlio della terra,
Profanator del cielo
Diè con arte, e vigor l'ultimo crollo;
Che 'l trifauce mastino,
Dal gran cortil di Pluto
Trasse, e domò con valor senza eguale,
Ch'all'ombre oscure, e rie
A ber l'acqua di Lete,
Fé passar l'alme infami
Del fier ditteo, del saggittario Erito,
D'un Gerion triforme,
E di Lennio la cruda, et ignea prole,
Che qual vivo Vessuvio
Alitava le fiamme,
E calcando d'Esperidi il bel piano,
Tolse al drago custode
Le preziose poma;
De' stinfalidi augelli,
Dell'eripeda cerva,
Dell'arcade cignale,
De' cavai della Tracia,
De' centauri feroci,
Dal suo possente braccio
Superati, e domati.
Indi ripiglia audace
Ch'egli è quello, ch'in culla
Con la tenera man due serpi estinse;
Che con la fama immortale
Privò da tanti capi
Il fiero angue lerneo;
Che nella nemea selva
Dell'orribil leone il fiero incontro,
Con l'ardire, e la forza
Affrontando, e cozzando
In più crudeli assalti
Del nemico ferin vinse la spoglia.
Che la superba mole,
Tetto del vasto mondo,
Pavimento de' numi,
Su le possenti spalle un dì sostenne.
E con mille altri suoi
Gloriosi trionfi,
Volle dar legge, e scola
Di sagace risposta
All'imperante capo?
Ed al nume dell'acque;
Con loquace valore
Troncar la voce, et aghiacciar il core.
Ma l'avversario amante,
Di orgoglio armando il cor e 'l ciglio d'ira,
E spargendo dal sen vipereo sdegno:
"Dunque" (disse) "tu dunque,
Con prolisso racconto
Di vantaggiose prove
Huomo mortal, ch'in cielo
La più possente dea hai per nemica,
Per l'oggetto più bel, che vive in terra;
Vuoi pareggiarti a me, che sono un dio!
Per stentate fatighe
Dallo sdegno di Giuno
Giustamente prodotte
Cerchi lingua profana
Il mio nome oscurar, far chiaro il tuo?
Cedan, cedan le brame,
Di rapace straniero
Ad involar tesor ove comanda
Un vastissimo impero avido prence;
Ad ubidir su vanne
Con tuoi danni, e disagi
De la matrigna irata i freni cenni;
Vanne uccisor di belve,
Ove tra gli aspri sassi, antri deserti
Sol può amante rival un mostro haverti".
Ma vuole il generoso, e forte Alcide
Con parco, e saggio dire,
Che sol forza, e coraggio
Porti dell'ardua lite il pregio amato,
Al cimento intimato
Il manto era opportuno,
Così nudo qual era
Nelle braccia, e nel petto
Con impeto crudele
E con voglia infocata
Nell'aspetto iracondo
Mostra atterrar con l'avversario il mondo.
Con intrepido aspetto
Getta l'altro dal dosso
Le verdi humide spoglie,
Indi fonda nel suolo
Le già ben larghe, e nerborute gambe,
Nella vita ristretto,
Altier le braccia oppone
Ove il vivo colosso
Già l'attende alle prese,
Ogn'un il corpo, e gli occhi
Gira pronto, e veloce
Per ribatter l'assalto,
Mutan le pretese, e gli atti
Cambiano li partiti,
S'annodan con le gambe,
Si stringono nel petto,
Si strappano, si scuotono, e la forza
Dal senno avvalorata
Aggionge lo stupore.
Ecco fa preda il prode
Ma di quell'acque il nume
Dalla nemica man guizza qual pesce;
E mentre ogn'uno brama
Di fare all'hoste suo toccar la sabbia
Stilla l'uno in sudor, e l'altro in rabbia.
Questo a quello s'oppone
Con man, l'uno di polve,
L'altro gonfio d'arena,
L'un con la destra annoda,
L'altro il manco li stringe,
E con la franca palma
Questo spinge il suo forte, e quello tenta
Farli presa nel collo,
E con far larga lotta
Si sciolgono, e di nuovo
Tornano al crudo Marte
Inalzando le palme
Con gambe avviticchiate,
Con scossa, e con inganno
L'impriggionato heroe
Ogn'un tenta atterrare.
Quindi al cimento esperto
Il famoso campione,
Alli di cui vantaggi
Piegava le sue cime altera palma:
Ribatte ad Acheloo
Ogni possente assalto
Qual a punto ribatte un duro scoglio
Dell'onde sue lo più feroce orgoglio.
Gia respinto, e ristretto
Nelli fianchi lo stringe;
Lo solleva di terra,
Col franco piè l'insidia,
Con la scherma lo stanca,
E con l'arte l'opprime
Lo ruota, lo sconvolge, e al fin l'aggira,
Dalla lunga contesa inviperito
Scioglie la destra, indi col dritto piede
Dona al dritto di quello
Ben a tempo una punta,
E rotando qual lampo
Dall'avversario al collo
S'appiglia all'improvviso
L'annoda, lo dibatte,
Ogni fronda scompiglia,
Il respiro li toglie,
Ecco l'oppresso nume
Qual havesse nel tergo Olimpo, ed Ossa
Con suo rossor dà su 'l terren la scossa.
Dello spettacolo era
Spettatrice la bella,
Anzi di lor tenzone il caro pregio.
Dalle di cui pupille
Con riflesso di luce,
Che non era che foco,
Spiccavasi il coraggio;
Già li cori sospesi,
Che del dubbio su 'l filo
Pendevano timorosi,
(Perché ogn'un concorreva
Con voti parziali
De fiero agone all'esito bramato)
Poco hebber da temere,
Che 'l cader d'Acheloo
Assicurò la tema,
Diè la fuga alla speme;
Ma tra dui fier la pugna
Delle sue circostanze
Non ha mete espressive,
Qual globo da bombarda
Con sibili, e con fischi
Dalla vittrice mano
Esce in forma di drago il vinto nume.
Ecco s'attorce in onde,
Irrigidisce il tosco,
Imporpora le creste
Bieco nel ceffo, e spaventosi gli occhi;
Con l'arrotate zanne,
Con squamme adamantine
Hor carpone d'annoda,
Hor da nodi si sgruppa,
Orgoglioso nel moto
Crede con le nuove armi
D'un sol vipereo morso,
Intimorir quel duce,
Che sol col suo valore
Dell'Hidra spaventosa
Iredivivi capi invitto estinse;
Ne scherza, lo schernisce,
E qual se fusse un angue
Fatto da mano artefice,
Curioso l'incontra,
Ed opponendo al dente
(Ch'in tre fila arrotava ardente tosco)
Insidioso un lino,
Dier le zanne annotate
Campo allo scaltro di predar il serpe.
Indi opprime a due mani
Le spaventose fauci,
Che 'l finto drago al fine
Già scotendosi in vano
Quasi a seguir vicin di morte l'orme,
Per sua sorte cangiar, mutò sue forme.
Quindi il terribil tauro
Della nemica forza,
Con l'appuntato corno
Vuol far l'ultima prova,
Ed irato zappando
Il regio pavimento,
Ergendo altero al cielo
Spaventosi i mugiti;
Allo stupido stuol de' spettatori,
Qual di Gorgone in vista,
Serpendo il giel per l'ossa,
S'impetrîro li cori:
Ma la famosa prole
Del fulminante nume
Radopiando il gioire,
E 'l vigore inforzando
Tutto ferocia a la vittoria aspira;
E volgendo furtivo
A la sua bella il lume,
Del trionfante rival lo scherno addita;
Dell'indovino amante
Egli ridendo schiva
L'impetuoso incontro,
Quello fremendo d'ira
Con tremendi mugiti
Stimolato dall'ira, e dall'ardore,
Pensa agirarsi, e tôrre
Su 'l corno il suo rival, e darlo all'aria,
Lo schernitor nemico
Aguatandosi a fianco
Stringe nel pugno il tortuoso avorio;
Indi tosto con l'altro
Il secondo afferrando,
Lo raggira, lo scuote,
Lo percuote, lo spinge,
Con la forza, e con l'arte
Finché il misero amante
Disperato, e cattivo
Lo stende su 'l terren pesto, e mal vivo.
A che dunque ti valse
Mal consigliato amante,
Vantar triforme aspetto,
S'apprender non sapesti
Del gran tonante i riti?
Sotto la fatal forma
D'amabile giovenco
Con le nevi del pelo,
E col cupido lume
Lusinghiero in sembianza,
Idolatra giocondo,
Ben potevi godere
Della bella adorata
Con lusinghe d'amor, scherzi innocenti,
E 'l ginocchio taurin con gentil moto
E domestico vezzo
Mansueto orgoglioso
Al piè dell'idol tuo lieto piegando,
Ben poteste allettare a maggior prove
D'incauta verginella
Curioso il desire;
Ben poteste arricchire
Del dovuto tesor le tue chiar'onde,
Che non merta virtù, chi virtù cela,
Né di pietade è degno
Chi spinge in rotto mare un fragil legno.
Dalle nemiche palme, il vinto heroe
Spera a forza involarsi,
E qual obsesso tauro
Si dibatte, e mugisce,
Nel duro suol agogna
Tirar quel crudo scoglio,
Ch'imitando la palma
Si sollevava, e stabiliva a gli urti,
Delle sciochezze sue,
Anzi del cieco amor nel fier giardino
Tra l'herbe amare, e rie
Di sognate speranze,
Tra le frondi del duolo
Colse quei fiori al fin, colse quei frutti,
C'han sol nome di danno, e di timore,
C'han sol nome di pena, e di rossore.
Che 'l trionfante Alcide,
Mentre un giogo animato
Con la manca facea del tauro al collo,
Il più pregiato corno, al vinto amante
Svelse con l'altra a caso,
Acciò forsi cangiando
Lo svelto corno in vomero lucente,
E 'l crudo arco d'amor in rozzo aratro,
Fatto bifolcho oblio, egli stampasse
(Là su 'l campo d'Averno)
Solchi d'ira, e di sdegno,
E tra quei solchi poi
Agricoltor fallito
Gettar seme d'insania, e d'ardimento,
Per mieter messe d'astio, e pentimento.
Questo è qual corno questo
Già detto d'Amaltea,
Ch'ogni più grato dono
Alla cieca dispensa,
Copia più cieca assai
Della volubil suora,
Di cui dir non poss'io, se mai nel volto
Hebbi sorte mirarla,
So ben ch'ella è fortuna, né da questa,
Calma si dê sperar, ma sol tempesta.
Vittorioso, all'hora
Delle spoglie rivali
Il vincitore, il feritore altero
Con la sua feritrice
Coronata di palma, ebro d'amore,
Verso il regno nativo il cammin drizza
Ma l'implacabil ira
Della sdegnata Giuno
Volle che l'onda Evena
In spumanti gorgogli
Col suo rapido corso
De' dui tranquilli amanti
Atterrisse, arrestasse i passi erranti.
Ivi la bella dea
Vaga madre d'Amore,
Delle bellezze rare
Della donna reale,
Fatta cruda, e gelosa,
Volle ad un colpo solo
Vendicar del suo bello
Il già culto oltraggiato,
E della dea sovrana,
Ch'a par del gran tonante ha seggio, e regno
Smorzar l'accesa rabbia, e 'l crudo sdegno.
Sovra un colle fiorito
Presso quell'onde amene un tempio v'era
A Citera sacrato;
Colà stando ciprigna un dì a diporto,
Vezzeggiando Cupido,
Vide ch'havea troncato
Lo spriggionato fiume
Alla smarrita coppia il bel sentiero;
Poco lungi vide anche
Indomito, e feroce
Nel suo biforme aspetto
Nesso fiero centauro,
Non vi frapone indugi,
Alla vendetta aspira,
E stringendo nel seno il crudo arciere
Con quei vezzi, e lusinghe,
Con quei baci, et amplessi,
Che son solo dovuti
Da Venere la vana
Ad un lascivo amore,
Sdegnosetta gli accenna in ambo i lochi
Del crudel mostro l'orgogliosa vista,
E della regia sposa
Le bellezze divine.
Questa è figlio, proruppe
Tutta accesa di sdegno,
Questa è quella superba,
Adorata bellezza,
Ch'al simolacro mio toglie gl'incensi;
Per cui miransi incolti,
Derellitti, e deserti,
Della tua madre i tempî,
"Prendi figlio mio ben prendi quell'arme,
E fa' sogetto al tuo feroce impero
Il superbo centauro
E dello sdegno mio
Fa' che vittima sia
Di mia beltà l'emulatrice altera:
Ché non da pari amor suole ben spesso
Nascere iniquo eccesso".
Da legami amorosi
Della bella sdegnata
Tosto si scioglie il lascivetto Amore,
Indi l'ali stendendo;
Prende l'arco crudele;
E dall'aurea faretra
Scioglie tra mille il più pungente strale,
E ben forbito a la sua benda il ferro
Col piè sinistro inanzi,
La rapida saetta
Nel secco nervo incocca,
Ed al segno accordando
Con la cocca, e la punta, il lume ancora,
Fa poi che 'l dritto pugno
Tiri il canape avvolto, e mentre crudo
Con lo stanco egli spinge avanti il legno
Quello la corda allenta,
Indi il telo svolando
Co' sibili ne giunse,
Ove l'occhio accennò del crudo arciero,
Ove di Vener volle il cenno altero.
Ad un pino elevato
Il misero centauro
Suo fianco cavallin poggiato havea,
E fissato nel suolo
Il volto suo virile,
Machinator biforme ordiva forsi
Nell'empia mente mostruose insidie;
O pur de' suoi germani
Ruminava dolente
La ruina fatale, anzi la strage,
Che ben degni sortîro,
Quando la prole audace
Del cruel Issione
Lor feroce fratello
Con l'accesa Hippodamia
Strinse giusto himeneo;
Da fantasma crudel destossi il fiero
Al lieve calpestio
De' regi pellegrini,
Che con l'occhio, e col passo,
Per tragittarsi alla contraria sponda,
Cercavan ponte, o legno;
Fremendo e gli occhi biechi
In quel volto leggiadro
Ei fissò quando a punto
Giunse come diss'io,
A ferirlo nol cor lo stral d'Amore.
Al bel foco vicino
S'incenerisce Nesso, e pur lo cela,
Ch'avvedutosi il crudo
Del litigioso varco,
Con empia frode pensa,
Spruzzar l'ardente fiamma
Con l'onda del piacere,
E come meglio puote
Nascondendo nel seno un Mongibello,
Tutto cortese, e pio
S'avvicina all'heroe, quindi il perverso
A pro del peso amato
Il forte, e curvo dorso offre costante
Nel torrente ondeggiante.
Fuggi, deh fuggi Alcide
Il simulato viso;
O pur schiaccia quell'angue,
Che sotto finti fiori
Di pietà cruda asconde;
Contro il tuo honor, e la tua grande salma,
Il viperino tosco,
E quella voce ardita
Sol di danno favella, e non d'aita.
Ma non si puote opporre
Contro fatal decreto alma vincente;
Non teme Hercol, non teme anzi a lui piacque
Dell'infido centauro il rio soccorso;
Ed ecco immantinente
(O dell'human saper fragil caduta)
Fida, su 'l dorso infido
Del mostro acceso il suo
Più pregiato tesoro;
Egli qual nuovo Atlante
Sostenitor d'un animato cielo,
Col prezïoso peso
(Anzi furto dir volli)
Entra pian, pian nell'onde, e si risolve
L'audace rapitore
Salvar nell'acque il suo rapito ardore.
Dove, dove ti guida
Ahi sventurato ladro
Il tuo sfrenato amore?
Queste, quest'acque chiare,
Complici del tuo fallo,
Tosto si mostraranno
Dal tuo sangue arrossite, il pentimento;
Speri dunque trovare
Antri sì cupi, e sì paesi esterni
Per occultar sicuro
Li tuoi più indegni, et amorosi eccessi,
Ove d'Hercol non giunga
Velocissimo il telo, invitto il braccio?
Questo, infido, è quel giorno,
Che d'Astilo s'avverà il vaticino:
Questo è l'invitto Alcide,
A cui solo è permesso
Dal tuo biforme corpo
Col suo arco fatal disarmar l'alma;
Ma più mostro d'un mostro egli sarebbe,
Se del mostro indovin mentisse i vati,
Già già festoso, alla sua preda intento
Ei fende l'onde, rapido qual vento.
Tosto all'herculea sposa,
(Un presentito horrore
Per le vene scorrendo)
Parve scherzo la tema
Del periglio mortal del corso horrendo,
Al periglioso corso,
Che 'l cavallino più crudo, e veloce
Facea contro la sponda;
Già tardi ella s'accorge
Della poca accortezza
Dello schernito sposo,
E chiudendo nel core
Il varco della speme,
Apre il varco de' lumi
Ad un pietoso pianto,
Aggiungendo un torrente
Di liquefatte perle all'invide onde,
Forsennata, e smarrita
Erge le grida al cielo, i numi invoca,
Contro il mostro imperversa,
Di poca fé lo sgrida,
Ed allo stral di Giove
Chiede con flebil tuon, soccorso aita;
Soprafatta dal duolo,
Già vicino all'occaso,
Per tuffarsi nell'onde
Minacciava quel sole;
Ma il ciel che lo serbava
D'innocente martir crudo instromento
Fé, che lo stral fatale
De l'offeso suo sposo,
Avvelenato, e crudo,
Rapido penetrasse
Nel tergo human del fuggitivo mostro:
Il saettato, e moribondo Nesso
Prima di mandar l'alma
Alla tartarea sede,
Con pretesto d'amore
Alla bella rapita,
Per far estinto ancor vendetta horrenda
Dell'uccisore invitto,
Porge l'infetto dono
La già sanguigna veste;
Quel crudel dono, e rinomato lino
Che la figlia d'Eneo
Credula, anzi gelosa,
Alla prole di Giove,
Dopo vittorie tante in pregio offerse;
Ma se questo è quel lino, anzi quel foco,
Che s'incarnò rabbioso,
Che passò fin nell'ossa
A divorar l'interno
De l'infelice Alcide;
Anch'è quel lin medesmo,
Che con sua feritate
La ferita più rea di Giuno estinse;
Ché se un huomo mortal lo tolse al mondo,
Dell'ardente roveto
Fatta pietosa Giuno,
Volle, che Giove al cielo,
Immortale tra dei lo collocasse;
Raffinato nel foco
Ivi splende qual oro, e gode in tanto
Dell'opre sue ricco di stelle un manto.
Così la Deianira
Fatta fisica esperta
Entro la tazza dorata
Al consorte mortal, con destra ardita
Offrì tra succhi amari immortal vita.
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