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Componimento scritto con molta probabilità per Agostino Chigi (1634-1705), I principe di Farnese, durante il carnevale romano.
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ARGOMENTO.
Il Tirsi toscano, habitante nel Lazio, havendo voluto condurre a diporto nelle proprie case la sua Clori, questa pria, che abbandonare il patrio tetto, e suoi congionti, volle, che con proprij figli il suo Tirsi da sé, si separasse, esagerando questo le sue passioni, con flebile istromento, alle sponde del Tebro, impietosì la ninfa, che inhorridita del fatto, intenta à curarne il morbo, con lenitivi efficaci trà le dame latine ne chiede i vestigi.
Al diadema d'alloro,
Al crine, et allo scettro,
Che dell'Orbe trionfa, a gli ornamenti
Delle vetuste historie,
So ben ch'alte memorie
Conservate nel petto
Di me, che son del Tebro unico oggetto;
Lascio l'algoso letto,
Per voi, dame latine,
E in giorni sì giocosi,
Non d'insulti amorosi,
Qual io solea, rapportatrice or vegno
Ma di litigi, e sdegno.
Con mio stupore un dì
Toscana musa alle mie rive assisa,
Con discordi concenti,
E con irati accenti,
Fissi nel suolo i rai, cantò così.
Lascia la cetra, o Clio, qui te non chiamo,
Ch'io di narrar non bramo,
Con armoniose corde
L'altro voler concorde
Di Gildippe, e Zenobie,
Dell'Arsinde, e Camille,
Che tra i boschi, e procelle
(De' consorti seguaci)
Tra le stragi, tra l'armi,
Dier pregi al sesso, et illustrâro i carmi.
Né voi, rabbiose Erinni,
Sulfurei habitatori
Al mormorio sì roco
Dall'avernali soglie
Ove pietà non è, qui bramo, e invoco.
Che tra voragini,
Tra urli, e gemiti,
Sibili, e fremiti,
E tetre immagini;
D'un Pluto pallido,
Torbido, e squallido,
Seguì Proserpina.
Né men dove ricetto
Di libici angui, e crude hircanie fere,
Di mortal tosco altere,
Serba pari veleno al mio soggetto;
Che in quelle parti
I mostri frigidi,
Voraci, e rigidi,
Il loro mortifero,
Fiato pestifero,
Inesorabile,
Rendono amabile
A' proprî Parti.
Dunque là su nel cielo,
O nella Terra, o ne' tartarei abissi
Trovare ah non degg'io
Istromento sì fiero,
Che rimbombi spietato al canto mio?
No, che 'l mostro horrendo, e rio,
Di cui celo il nome crudo,
Sol di vario humore abbonda,
E del cielo, e di natura
Riti, e leggi ei più non cura,
Che col genio suo peggiore
Sprezza i figli, e di quelli il genitore.
Hor già, che in ferità
Trovar io non potrò
Una pari empietà,
Fremendo tacerò.
Disse, tacque, partì di sdegno accesa;
Ond'io, che non compresi,
Sotto qual ciel respira
Il soggetto odiato,
Temei non occupasse il Lazio amato.
Scaltra lung'hora scorsi
Le care piagge, ed i felici colli;
Ma nell'angusto giro
Trovar giamai potei
De la dolente cetra il fier martiro.
Indi le piante torsi
Ver voi; forsi chi sa
Non celasse quell'angue
Qualche vaga beltà.
Se trovar
Potrò quel cor,
Della bile,
Tetra, e vile
Vuo' scacciar
Il rio vapor,
E se v'è
Chi lo sa
Me l'insegni per pietà.
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Record by Giovanni Tribuzio