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Watermark
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Titolo tratto dall’incipit, presente anche nella tavola dei contenuti di pagina 198v come "Rugge quasi Leon à tre". L’attribuzione a Luigi Rossi è presente sul manoscritto a c. 5v, non nella tavola dei contenuti.
Uniform title
Scoring
Bibliographic repertories
Analytical description
S, Và cinto di opai
S, Barbara ferità! Già stretto il piede
Mustafà, S, O fortunati voi che in fera guerra
Coro à tre, S, O’ Ciel come il consenti?
Testo, S, Al suon di questa voce
Baiazet, V, Dite voi, che miraste
Testo, S, Di donneschi ululati, e d’alte strida
Baiazet, V, Amica, ed’ a che vieni?
Coro à tre, S, O’ Ciel come il consenti?
Testo, V, Qui tacque Baiazet, né Mustafà parlò
Coro à tre, S, Ah lo narri per noi barbara voce
Poetical text transcription
[Testo]
Rugge quasi leon ch’abbi la febbre,
Bestemmia il ciel e s’ange
Sconfitto dal Sophi l’empio Amurat.
De le sue rotte genti
I due germani suoi crudel incolpa,
Dice con fieri accenti
A un Tartaro Bassà:
Và cinto di opai
E pria che giunga ad oscurarsi il dì
Fa morir Baiazet, e Mustafà.
Barbara ferità! Già stretto il piede
Di rea catena e forte
Del gran sangue ottoman il doppio germe
Attende la morte.
Ma pria che pieghi la real cervice
Mustafà leva i lumi e cosi dice:
[Mustafà]
O fortunati voi che in fera guerra
Su la nemica terra
Sotto lancia circana o persa spada
Cadeste morti sì ma non già vinti,
Non da un fratel, ma da un nemico estinti.
Numi del Turco Impero
All’or che sarò morto
Fate fede al mio Re ch’io moro a torto.
E se dispiace a Lui che in vita stia
Mia giovinetta età
Mora pur Mustafà.
Deh mora e se fra voi pietosi amici,
Alcun del mio morir prova cordoglio
A miei funesti prieghi
L’ultimo dono ahi per pietà non nieghi.
Dell’infelice
Mia genitrice
Deh consoli le pene, e plachi il duolo.
Oh Dio qual sentirà l’aspra novella
Di me che più che se medesma amò.
Ma che dich’io, chi consolarla può?
Vedova infortunata,
Di me suo figlio priva.
Ah non resterà viva,
Che piaga sì crudel non soffrirà
Ahi che la misera s’ucciderà.
[Coro a 3]
O’ Ciel come il consenti?
Dar morte agli innocenti
Chi non muove a pietà.
[Testo]
Al suon di questa voce
Il Turco più feroce,
Il Tartaro più fiero
Lacrimò. Ma, che pro?
Se nel tiranno reo pietà non è
Né sente l’empio ohimè
Baiazet infelice
Che solleva la fronte, e così dice:
[Baiazet]
Dite voi, che miraste
La sanguinosa e sfortunata pugna.
Parlino i cavaglier, parli la plebe,
Parlino i bianchi popoli, et i neri
Dican se questa mano,
Coi nemici pugnò, pugnò col fato
Sin ch’ebbe forza a sostener la spada.
Ecco il petto, ecco il fianco
Che di cento ferite è ancora infermo.
Stillano ancor le cicatrici il sangue.
Altre colpe non ho se non son queste,
E se colpa non è l’esser esangue
Per servir bene il suo fratello e Re
Troppo dura mercé,
Il mio servir avrà s’egli morir mi fa.
[Testo]
Di donneschi ululati, e d’alte strida,
Mentr’ei dice così l’aer rimbomba,
E sparsa il crine, e lagrimosa il volto,
Del gentil Baiazet sposa novella,
Daraida bella
In furiosi passi
Rompe la turba spettatrice e ’l piede
Conduce là ch’incatenato il vede.
Provò mille passioni in un sol punto,
E ben mille querele
Volea dir in un fiato e non poté.
E lasciò proferir sol’ un ohimè.
Disse ohimè né vi fu
Gianizzero, o Spagi,
Agà né Capigi
Ch’il pianto trattener potesse più.
Il più fiero Chiaus ne lagrimò.
Ma a che pro?
Se nel tiranno reo pietà non v’è
Né sente il fiero ohimè
Bajazet che rivolto
Parla a la Turca in lacrimoso volto:
[Baiazet]
Amica, ed’ a che vieni?
A che vieni a mirar scena sì ria?
Io moro, e qui mi sia
Vindice s’io pur mento il ciel supremo,
Che mi duole il morir sol per tuo Amore.
Ecco ch’a mio mal grado
Sugl’occhi il pianto mi distilla il core,
Soffro la morte mia col ciglio asciuto,
Ma lagrimar per te non prendo sdegno.
Prend’ il mio pianto in segno
Precursor del mio sangue
Che sol Daraida
Agli occhi miei fu bella.
Più numerosi e più felici gl’anni
Io bramai viver teco
Il ciel il vieta, e poderoso scetro.
Tu col voler del ciel saggia t’acquetta.
Da quel petto ch’amai più che me stesso,
La memoria di me deh non si parta.
Ch’affatto non sono
Di vita privo
S’in te che tanto amai restarò vivo.
I brevi giorni miei tronchi dal ferro
Se non ti dier di me figli che poi
A tuoi vedovi dì sian di sostegno,
Non accusar la sorte,
Ch’almen fra lor tu non potrai vedere,
Che al fratello il fratel doni la morte.
E se misera sposa ogn’un ti dice,
Non ti sapran poi dir madre infelice.
Deh se m’amasti, e m’ami
Non dar risposta ai miei dogliosi accenti,
Che non potrò sofrir tanto cordoglio.
Ciò che vuoi dir ciò che puoi dire io l’so,
Io per te lo dirò.
Dirlo mi sia concesso
Poi ch’il mio duolo e ’l tuo provo in me stesso.
Tu perdi Baiazet,
Fuor di ragione ucciso,
Egli è da te diviso
E si divide l’alma dal tuo bel seno.
Resti vedova, e sola,
Senza chi ti consigli, o ti difenda,
Esposta a ogni disprezzo e ad’ogni danno
In man d’un reo tiranno
Daraida, è vero io lo so.
Provo più che di me di te pietà
Ma rimedio il morir sai che non ha.
[Coro à tre ]
O’ Ciel come il consenti?
Dar morte agli innocenti
Chi non muove a pietà.
[Testo]
Qui tacque Baiazet, né Mustafà parlò,
Daraida tramortì,
Dal più rigido ciglio
Il pianto scaturì.
Ciò che poscia seguì
Opra fu d’un crudel barbaro attroce.
[Coro à tre]
Ah lo narri per noi barbara voce.
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shelfmark Q.50.4
Record by Iren Rana Gediz