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Indole bellicosa,
Che ferva in sen d’eroe, se ben la preme
O stagione di pace, o toga inerme,
Egra però non posa;
Ma del chiuso valor l’innato seme
Spunta d’altre virtù fecondo il germe;
Voglie bennate e ferme,
Solo in quell’alma avviva e mai non cessa
Con opre a sé simil produr se stessa.
Ma se poi le vicende
Sgombran la pace e Bucefalo irato
Sente Misen, che roco a Marte invita;
O com’avida intende
Il noto bronzo e l’incentivo amato,
L’Amazzone del cor, pur or sopita
Si risveglia e s’irrita
A Lauri e a Palme e con più vivi sdegni
Sospira di Filippo i vinti regni.
Tal la verde pendice
Del Libano superbo, avvenna solo
A inalberar al Ciel boschi odorosi;
Se da rupe infelice,
O da sabbia infeconda, il ricco suolo
In parte oppresso vien, pur generosi
Vi nudre i parti erbosi,
In timi, acanti e gigli e fin nell’erba,
S’altro non può la nobiltà riserba.
Ma dove umor nativa,
Imprimendo nel suol forza vitale,
Gl’avviva eterni in sen Vertunno e Flora
O come in crin lascivo
Sferza l’aure il bel colle o come assale
Il Ciel con fronte insuperbita; ognora
In sui frutti s’infiora
D’aranci e cedri e odorato pondo
N’impone ai venti a profumarne il mondo.
Nel cor d’Antonio il prode
Giacea Minerva ascosa e fin ch’aprisse
Giano le soglio a presentarsi armata,
Con onorata frode
Mentia diversi eroi; talora Ulisse
Sembrò, che con favella, ond’è frenata
Tisifone sdegnata,
Amministra i consigli e l’altrui voglie,
Ancelle a suo voler, lega e discioglie.
Talor dell’aureo Creso
Forma vestì, che le miniere Lide
Con numeroso rastro avido sveni;
Non parco e non intenso
A pascer Davi e sublimaro Armide,
Nutrire apici e coronar Sileni;
Entro i languidi seni
De Persici tiranni e non in petto
Romano, alme sì vili hanno ricetto.
Quanto di dolce e grande
Risuona in Pindo e quanto infiamma e scote
Di saggio e d’immortal, Nume di Delo,
Largo alimenta e spande
Regale a pro di Clio le mai non vote
Sue vene d’oro Antonio in ogni Cielo,
Pullula qualche stelo
Per lui di Lauro; ond’il gran nome e l’opre
Un mondo all’altro in mille lingue scopre.
Sovente poiché stanco
Da moli immense, apra a se stesso anch’egli
Cortina in Cirra e i bei furori accenda,
Tosto il plettro dal gianco
Erger vedi ogni musa e ov’ei svegli
Le fila, intenta starsi a trarne emenda;
Arrossita si sbenda
L’invidia adulatrice e in sé delusa,
Quanto di lui vantò minore accusa.
Non v’ha delitie amene
D’arte ben colta, opra non v’ha che tanto
Mostri in fronte mortale un Nume impresso,
(Sia pur severa Atena,
Operosa Stagira e dotta Manto),
Che tutte ognor nel più sovrano eccesso
Non le scopra in se stesso
Unite Antonio; onde a stancar le ciglia
Germoglia eterna in lui la meraviglia.
Sì variar sembianza
Godeasi Palla e a quella parte, ond’ella
In un l’Egide imbraccia e impugna l’asta,
Ch’omai d’ogni tardanza
Impatiente in superbia rubella,
Acquetava l’Erinni e la Cerasta
Con sì pregiata e vasta
Messe di glorie: in tai virtù soggioga
L’astata suora a la germana toga.
Ma pur alfin s’apprese
Vampa fatal, che cento bocche aperse
D’ignota cava a dissetar gl’ardori;
Non tante braccia stese,
Qualor più grave di tributi immerse
L’Africa il Nilo e nell’Egitto Dori
Ramoso i gonfi umori
Precipita. Tutta di guerre ardea
Con un incendio egual Tetide e Rea.
Or tu faconda e fera
Diva, che siedi in quell’augusto seno
Moderatrice eterna, or che sprigioni
Tua deità guerriera
Ai supremi prodigi o sciogli almeno
L’eloquente compagna e tutte esponi
Le sanguigne tenzoni
Di quell’invitto, i cui trionfi immensi
Ed oprarli e ridirli, a te conviensi.
Con taciturna fede
Giuraro i regi e d’un metallo solo
Al destinato invito, uscì repente
A non credute prede
Ampia falange: pullular dal suolo
Parean gl’armati, qual mirò sovente
Argonauta possente
E correan giunti ad assorbirsi intiero.
Ne pur terrestre il corso
Movea l’oste giurata e da le zampe
D’infiniti destrieri il suo battuto
Rimbombava sul dorso
Fin dell’opposto mondo e da le vampe
De’ ripercossi acciari era accresciuto
Il dì quasi perduto
Anco all’esigli Artoi; ma tempestare
Godea le terre ancor guerriero il mare.
L’Adria altera di prore,
Su le spume natie spalmando abeti,
Imprimea di pallor fronte picena
Ne vindice minore
Volando ognor per la materna Teti
All’eccidio di noi poppa tirrena
Sfornia la nostra arena
D’abitatori e già dal doppio lido
Si giunse all’Appennin la tema e ’l grido.
Ma stende Urban la destra
E col ciglio adorato a Roma accenna
Che ratto s’armi e i neghiettosi figli
Richiami alla palestra;
Non tanti allor, che ne gelò Porsenna,
Precipitar con fervidi consigli
In aperti perigli
Quanti giurar con orgogliosa fronte
D’incender braccia e piombar giù dal ponte.
Quel generoso istinto
D’esporsi a morte e d’operar prodigi,
Che ne’ petti latini un tempo imbelli
Sembrava in tutto estinto,
Conserva ancor quei nobili vestigi,
Nei gelati ruscelli
E ne mostra svegliato atti novelli.
Doppo lunga prigion le danze mesce
Ad un lampo di sol disciolto il pesce.
Francesco alla cui fede
Lince guardinga e di palpebra ignara
Gran parti degl’incarchi ha Urban commesse,
Tanto ogni mole eccede
Col’ampio cor, che quasi salma avara
Gli fussero due mondi e più chiedesse,
Con le piante indefesse
Misura alato il campo o nol ritarda
O scorpion, che n’inondi o can che n’arda.
Ma dell’oprar gentile
Unico esempio e d’ogni altera impresa
Mente efficace Antonio o come a Marte
Freme; ma con senile
Ardir Fabio in Marcello a la contesa
Maturità l’affretta: impeto ed arte
V’hanno eguale la parte:
Pria ch’audace, avveduto; e che giacenti
In seno ai Fati ancor scopre gli eventi.
Questi in elmo e lorica,
A Cillaro spumante il fren governa
E con alato stuol batte seguace
La falange nemica;
Che sparve sì, ma con natal di Lerna
Sorse vie più dal funeral ferace.
Giungi al ferro la face
Alcide e qualsisia furor dell’armi,
Con chi tanto ricresce, ah non si sparmi.
Lave più tuona il piombo
Da mille fauci incendioso e dove
Cangian turbe d’estinti i piani in colli,
All’orrido rimbombo
D’urtati usberghi impetuoso move
E se di sangue ostil non ha satolli
I suoi, non sia, che crolli;
Fischian le morti intorno e pur tra l’onte
San riverir quell’onorata fronte.
Non ei con pompa assira
Redine d’oro al corridore ingemma
E non raguna a coronar la mensa
Ciò ch’in selve s’aggira,
Ne spoglia di natanti ogni maremma;
Del suo tetto regal la mole immensa
Supplice e ricompensa
Povera tenda e a la guerriera asprezza,
In tolerarla primo, ogn’altro avvezza.
Con agguagliar cortese
Altrui se stesso e declinar talora
Ai congin del rpivato i fasci e l’ostro,
Idolatra si rese
Le schiere ed in virtù di chi l’adora,
Converse in un laureto il campo nostro,
Ond’io m’armo all’inchiostro
E con quel fosco in più maturo arringo
L’estinte glorie ad illustrar m’accingo.
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shelfmark 204.3.B.12.55
Record by Nadia Amendola