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Poetical text transcription
Chi mi rapisce a volo e chi mi rende
Peregrino a le sacre illustri rive
D’argivo Pindo, o m’incorona il crine?
Non per me di là tu chiaro risplende
Cortese Febo, o le canore Dive
Aprono a’ miei pensier Tespie cortine.
Da contrade diurne
Tu ch’a Carlo svelasti il tuo mortale,
Gran Rosalia, cui lunga etade ascose,
Spira lieta a mia mente aura immortale:
Tu mie forze abbattute e timorose
Solleva amica; e de’ suoi chiari vanti
Altamente il mio stil ragioni e canti.
Di sua stirpe regal penna sagace
Con sollecita cura orni le carte:
E de’ suoi paschi e fortunati eroi
Temuti in guerra e riveriti in pace
Lunga serie ne conti e con nov’arte
Antico fregio aggiunga ai fregi suoi:
E riverisca poi
Ne’ le porpore sue la stirpe e gli assi,
Che nel vasto di Testi ondoso regno
Con glorioso scettro armar le navi:
Che sua pura virtù più nobil segno
Per me s’offre al pensier, ch’ammira in lui
Suo valor, sua pietà, non gli avi soi.
Scorse d’Iberia il gran Monarca invitto
Lucida in terra da l’etereo polo
Scesa la bella Astrea serena il ciglio
Con giusta mano sollevar l’afflitto;
Allor che di Trinacria il fertil suolo
Resse questo di Grano altero figlio.
Lunge posta in esiglio.
L’empietà, la discordia, il furor cieco,
Fra i sereni del Cielo e fra le stelle
Vide i raggi d’Astrea fiammeggiar seco.
E le contrade sue tonar più belle.
Forse così festoso in vista lieta
Giove, allora che nacque, ammirò Creta.
L’oro, ch’ai raggi suoi lucidi e schietti
Fin dal profondo sen de l’empia terra
Le menti più superbe abbaglia e oscura
(Tanto qui giù dentro gli umani petti
Sacra fame d’aver s’asconde e serra)
Far non poté, ch’alma sì grande e pira
Ingorda voglia oscura
Sentisse mai nel regio cor destarse.
Con non mai stanca man gli ampi tesori
A pro del popol suo divise e sparse,
Dove rigido il Fato i suoi rigori
Versò più crudi: e fur le gemme e l’oro
Semi , che germogliar palme e alloro.
Ma perché sua virtù ria più sfaville
Chiara fra l’ombre de l’umana vita,
Come talor tra vive fiamme ardenti
L’oro i lampi raddoppia e le faville.
Di regni acherontici fosca, infinita
Uscì schiera di mali e l’aria e i venti
Co’ suoi fiati nocenti
Empia turbò d’intorno: e già per tutto
S’ode con voce di pietà, di morte
Ne la strage comun la doglia e ‘l lutto.
Cader con guancie sbigottite e smorte
Vede suoi figli il genitore e spesso
Con atti di pietà perde se stesso.
Ritentar più non giova arte terrena
Nel periglio mortal l’arte paventa;
Scampo è solo la fuga al mal vicino.
D’amor, d’umanità legge non frena
Altrui le piante: è saggio ben, chi tenta
Lunge l’ira fuggir del suo destino.
Ma santo ardor divino,
Ch’arde nel sacro eroe di cui ragiono;
Spinse lui fra le morti e non gl’increbbe
Offrir ai rischi altrui sua vita in dono.
Fortunata Sicania allor non ebbe
Fra sembianze di morte empie e lugubri
Del suo gran Carlo a invidiar gli Insubri.
Apra Pindo verace i sacri abissi,
Che nel grembo de’ fati il cielo asconde;
Se penetrar tant’oltre altrui pur lice.
Qual’io veggio stupor segnati e fissi
Prometter di la su stelle seconde?
Già trascorsa d’Europa ogni pendice,
Con augurio felice
Miro del nostro Giove il regio augello
Stender suo volo per lo ciel di Roma:
Già con fregio di gemme e d’or più bello
Cinge di tre corone a lui la chioma;
E coronato a più lontana foce
Dispiega i vanni a propagar la croce.
Canzon, se mai ti scorge
Amico fato al grand’eroe, ch’io canto,
Riverente l’inchina e pensa umile
Al suo gran merto di mia cetra il canto.
Da le sue glorie il mio divoto stile
Prenderà novi fregi e i foschi inchiostri
Fiammeggeranno a lo splendor degli Ostri.
Country
Language
Shelfmark
collection Borromini
shelfmark S. Borr. Q.IV.223.7
Record by Nadia Amendola