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Del famelico Mida
Udite anime aurate
Le dolorose strida,
E versate con lui di pianto un mare;
Mentr’egli in grembo a un fulgido tesoro,
Trofeo d’un insoffribile appetito,
Maledisce quell’oro
Da l’ingordigia sua già partorito,
Preziosa cagion di sue rovine;
privo di cibo, e sitibondo al fine
In un Gange dorato,
Tantalo coronato,
bestemmia di Lieo gli alti favori,
E digiuno così parla tra gli ori.
Fermati mano ardita,
Dove, dove ti stendi, ove ti manda
D’oro fame esecranda
A rapirmi la vita?
Fermati mano ardita.
Non vedi tu che la superba Reggia
Del frigio Regnator, di Mida il grande
D’aurei lampi arricchita omai biondeggia?
Ma i lampi di quest’ori,
Che d’ogni intorno sfavillare io miro,
Sono a me precursori
D’un fulmine mortale,
Con cui fame crudel l’anima assale;
Ond’è ragione al fin ch’io caggia oppresso
Se s’indora e s’indura il cibo istesso.
Senza che tu più ostenti
Destra mia troppa audace
I favori del Ciel ne’ tuoi portenti,
Ben vede a danno mio l’occhio che piange,
Che il tuo tocco fatale
Produce un Tago e partorisce un Gange;
Ma, che giova, che vale
Se al labro inaridito
Esca vital non porge oro indurito?
Che val, che col piè
Calpesti un Perù
Se a darmi mercè
No serba virtù?
Se in tanta ricchezza
Famelico io moro,
il cor ti disprezza
Mal nato tesoro.
Senza imprimer ne l’oro orme superbe
Non bastava calcar con piè gentile
In drappo assiro un ricamato aprile?
Ma quando al cor sì altere brame accesi,
Che pensai, che pretesi?
Fors’io credea del fulgido metallo
Di cui cotanto abbondo
Impoverire il mondo,
E vederlo al mio piè reso vassallo?
Oh di avaro desio misero eccesso!
Perchè troppo acquistai perdo me stesso.
Voi liquidi argenti
Da i lumi dolenti
Ormai diluviate,
E unitevi pure
A zolle sì dure
Di masse dorate;
Forse, chi sa, quei vostri argentei umori
Avran virtù di liquefar quest’ori.
Ma mentre afflitto io piango
Sol le lagrime mie lambisco e libo
E privo ancor rimango
Del sospirato cibo;
Che d’un ammanto aurato
Mascherando il sembiante
Su la scena de l’arido palato
Con disusata inedia
Forma al ventre digiun dura tragedia;
Quindi mentre agonizzo a gli ori in seno,
Con miserabil sorte
Arricchisco l’essequie a la mia morte;
E mentr’esangue al fin dico ch’io moro,
L’estremo accento ancor termina in oro.
Si appaghi ogniun de le fortune prime,
Che spesso il Ciel colle ricchezze opprime.
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shelfmark ARCA VII 24.5
Record by Nadia Amendola